Non è necessario essere dei grandi esperti di rap – hip hop per capire che dal 1989, anno di pubblicazione di “Signifying Rappers”, l’opera a quattro mani di David Foster Wallace e di Mark Costello, in quel campo musicale – ammesso che di musica si possa parlare – sono cambiate molte cose. D.F. Wallace poteva scrivere che “il mondo dei concerti rap, come la musica rap in sé, è ermeticamente chiusa alle facce bianche” (pp.100), salvo poi citare il “rap bianco per le masse bianche (gli esecrabili Beastie Boys)” (pp.131), comunque ancora un’eccezione rispetto un nascente commercio monopolizzato da neri, da gang e da personaggi poco raccomandabili. Adesso il declamato con sottofondo di campionamenti è definitivamente tracimato in ogni dove e addirittura il nostro TruceBaldazzi, una sorta di Giuseppe Simone versione hip hop, è uscito dal ghetto di youtube e ha ricevuto inaspettate attenzioni dagli addetti ai lavori. Comunque sia chiariamo subito una cosa: concordiamo con Paolo Conte che, poco diplomatico, ha liquidato il genere come “asilo impazzito”; e sicuramente l’ascolto di un rap alla stregua di un singspiel pop ci risulta più digeribile rispetto una mera sequenza di parole ritmate. Del resto che il lato strettamente musicale del rap sia quanto meno deficitario lo cogliamo dalle stesse parole di D.F. Wallace: “Per esempio è venuto fuori, l’avreste mai detto?, che questa ‘nuova musica’ non è neppure musica […] Anche all’esame più superficiale, si vede che il rap è un genere privo di armonia o contrappunto […] L’unica vera e propria musica, nel rap, nasce da matrici computerizzate, dischi scrarchati a mano e campionamenti della musica altrui manipolati digitalmente” (pp.104). Limiti che evidentemente non hanno impedito ai due nostri autori di appassionarsi ad un genere che, come racconta Mark Costello nella prefazione, entusiasmava proprio per la sua capacità di sconcertare e spiazzare: “La domanda di Dave era sempre quella fondamentale: Insomma: questo concerto faceva cacare? O era qualcosa di folle, fantastico e libero?” (pp.20).
Interrogativi probabilmente mai risolti, ma i due amici “nerd” non rimasero con le mani in mano e, in quel 1989, quando erano ancora studenti di Harvard, decisero di mettere nero su bianco una vera e propria ricerca dedicata alla nascita e all’evoluzione di questo fenomeno musicale-antimusicale. Il frutto di innumerevoli ascolti, di partecipazioni avventurose a concerti (allora i visi pallidi non erano sempre ben visti dai rappers e dai loro fans), ha prodotto una sorta di saggio narrativo che, sempre a detta dell’ottimo Mark Costello, voleva avere un “taglio alla Lester Bangs”, con “tre sezioni che scimmiottavano la tesi, l’antitesi e la sintesi hegeliane” (pp.21). I due amici hanno firmato separatamente i vari capitoli ma, nonostante di Costello ormai si sia persa traccia e invece Foster Wallace sia diventato autore di culto, il risultato complessivo appare equilibrato e nobilitato da un’ammirevole capacità di analisi: ambedue gli autori, ascoltatori onnivori, ci regalano una dimostrazione di versatilità e un evidente sfoggio di cultura umanistica, anche se onestamente non abbiamo capito se ne sapessero davvero di musica. La prosa di David Foster Wallace è decisamente più immaginifica e ardita rispetto quella del suo amico (Costello ci appare più saggista), ma le apparenti divagazioni dell’uno e dell’altro, non estranee ad una sorta di lucida attrazione verso l’orrido, alla fin fine risultano coerenti con l’inquadramento del fenomeno rap dal lato storico, filosofico e sociologico. D.F. Wallace, difatti, tralasciando gli aspetti strettamente musicali – che abbiamo visto piuttosto dubbi ed esito di furtarellli chiamati campionamenti – ha potuto scrivere del “rap serio” come “forma di creatività all’interno di un contesto”, considerandolo “vera poesia” rilevante all’interno del Grande Mercato Americano” che, grazie al “suo potere di stimolare e legittimare le iniziative artistiche di una giovane cultura urbana demotivata e poco scolarizzata, è molto probabilmente il fenomeno più importante della poesia americana contemporanea” (pp.177). Ed ancora un approccio che, pur considerando la cosiddetta estetica del campionamento, denota innanzitutto attenzione al contesto sociale, ammorbato dalla cosiddetta cultura yuppie e dagli effetti più deleteri del reganismo, e ai più sorprendenti significati paramusicali del genere (altrimenti difficilmente avremmo letto della relazione tra rap e rock): “la qualità peculiare del rap è destinata ad esser giudicata innanzitutto in relazione a ciò a cui si oppone. In caso pensiate che ce ne siate dimenticati, il rap è prima di tutto un movimento all’interno della musica rock” (pp.180). Un movimento, “una sitcom chiamata rap” che, a detta di Costello, rappresenta una ricerca di libertà ottenuta “sfigurando il passato” e nella considerazione che oltretutto alle spalle esistono “trent’anni di musica pop fatta di speculazioni senza scrupoli e imitazioni pedisseque” (pp.162).
Parole che non nascondono le profonde contraddizioni presenti nel mondo che gravitava intorno all’ hip hop (pensiamo al rapper che si rivolge alla popolazione del ghetto quando poi il suo fare ribelle e tracotante si alimenta dei tipici valori capitalistici del successo e del denaro), la pericolosità delle gang, le invereconde provocazioni di alcune star emergenti, il rischio dell’autoreferenzialità, chiaramente tutto in rapporto alle brutali contraddizioni della storia e della società americana. Leggiamo: “è dura immaginare i Public Enemy che predicano il rinascimento della militanza nera, la rivoluzione e l’apocalisse americana mentre la CBS, bianca come un giglio, li paga milioni di dollari per i diritti a distribuire sul mercato queste stesse esortazioni all’annientamento del sistema capitalistico” (pp.133). Ma conviene rileggere ancora una volta altre parole di D. Foster Wallace, che, secondo noi, spiegano molto del libro: “La cazzuta genialità del rap sta in questo processo circolare, un loop quasi digitale: ha trasformato l’orrore del suo mondo – tradito dalla storia, bombardato da segnali contraddittori, violenti nella sua impotenza, isolato, claustrofobico e privo di vie d’uscita – ha trasformato questa specifica forma di orrore in una specifica forma d’arte d’avanguardia. Va persa la consolazione, ma si guadagna un nuovo tipo di mimesi, ruvida e spietata: Platone campionato mentre sta seduto sulla tazza del cesso” (pp.216). Di sicuro molti di noi potranno rimanere perplessi in merito all’assimilazione rap-arte d’avanguardia, ma, col senno di poi, è un dato di fatto che i giovani autori di “Signifying Rappers” abbiano visto lontano. Così scriveva D. Foster Wallace: “[la musica rap] un genere che si sta evolvendo così velocemente che non riesce neppure a stabilire davvero la propria identità” (pp.146). Allora perché stupirsi di TruceBaldazzi?
Edizione esaminata e brevi note
David Foster Wallace, (Ithaca, 1962 – Claremont, 2008) scrittore statunitense. È stato autore di romanzi (“Infinite Jest”, “La scopa del sistema”), racconti (“La ragazza dai capelli strani”, “Brevi interviste con uomini schifosi”), di saggi e reportage narrativi (“Considera l’aragosta”, “Una cosa divertente che non farò mai più”).
David Foster Wallace, Mark Costello, “Il rap spiegato ai bianchi “, Minimum Fax (collana Sotterranei), Roma 2014, pp.188. Traduzione di Martina Testa e Christian Raimo. Titolo originale “Signifying Rappers”.
Luca Menichetti. Lankelot, agosto 2015
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