Oltre vent’anni fa, ben prima di “Al limite della docenza” (nomen omen), è stato pubblicato un libro fortemente critico nei confronti della casta accademica, scritto oltretutto da un professore universitario: si chiama “L’Università dei tre tradimenti” di Raffaele Simone, giunto alla sua seconda edizione per i tipi di Laterza. Tre tradimenti che il noto linguista aveva inteso nei confronti dello Stato, della ricerca scientifica e chiaramente degli studenti, i primi a subire le inefficienze del sistema e le eventuali mattane del docente di turno: un’analisi impietosa che metteva a nudo problemi sempre sottovalutati come le valutazioni d’esame senza criterio, tra manica larga e strage degli innocenti, le selezioni basate soprattutto per sfinimento (sappiamo che negli ultimi trent’anni i testi d’esame di molti corsi si sono ampliati a dismisura), l’assenteismo dei docenti, e non ultime le differenze tra facoltà e facoltà: quelle come giurisprudenza, medicina ed economia, dove lo studente viene spesso visto dal professore come una seccatura che ruba tempo a più remunerative attività professionali; ed altre facoltà, quelle magari meno frequentate, nelle quali il rapporto tra docente e studente tende ad essere più corretto e umano. Nel frattempo sono passati un bel po’anni, è entrato in vigore il sistema del tre più due e la legge Gelmini, ma non per questo i problemi e le assurdità del sistema sono venute meno. Anzi, agli antichi vizi magari se ne sono aggiunti altri come la cosiddetta “liceizzazione” dell’Università. Di questo ne scrive anche Stefano Pivato: “oggi siamo di fronte a quello che gli osservatori definiscono un crescente processo di liceizzazione dell’insegnamento universitario: modi, maniere e costumi degli studenti delle scuole secondarie sono transitati nelle aule universitarie […] nell’arco di poco più di dieci anni, l’università italiana è transitata da un modello formativo nel quale gli studenti imparavano ad imparare a uno nel quale bisognava imparare un mestiere in fretta” (pag. 85-107). Ci rendiamo quindi conto che “Al limite della docenza”, nel mettere a nudo i vezzi e i vizi della casta accademica pur col fare divertito e irridente del pamphlet, di fatto tocca e sfiora gran parte di quegli argomenti (assurdità, malcostume, normativa sballata) che già anni fa Raffaele Simone aveva compiutamente svelato nel suo libro: una critica impietosa, non priva di sarcasmo, che parte dai comportamenti tutt’altro che cristallini di tanti docenti, da un sistema di cooptazione che ormai ha senso solo per la perpetuazione di una casta, e che finisce per mostrare come ancora si sia lontani dall’emendare l’Università dai suoi “tradimenti” nei confronti dello Stato, della ricerca scientifica e degli studenti.
E’ lo stesso Stefano Pivato a chiarire i suoi intenti: “a muovere queste pagine non sono motivazione di denigrazione o dileggio, ma piuttosto di profondo rispetto per un’istituzione che va salvaguardata da quanti ne fanno non di rado un uso privatistico” (pag. 7). Un rispetto che, ad esempio, vuol dire sbugiardare il luogo comune secondo cui, dopo la contestazione studentesca di oltre quarant’anni fa, sarebbe venuto meno ogni sano principio di autorità, ammesso e non concesso che prima ci fosse qualcosa di sano: “La scossa del Sessantotto, la contestazione al potere e all’autorità dei professori è stata riassorbita nel giro di pochi anni dai meccanismi dell’accademia […] Molto spesso, anzi, sono decenti provenienti dalle esperienze delle lotte studentesche degli anni sessanta e settanta, che mettevano sopra ogni cosa lo scardinamento di ogni principio di autorità, a fare esercizio di gerarchia nei confronti dei loro ricercatori. Il potere cancella ogni traccia di ideologia e di appartenenza politica” (pag. 27-76). Parimenti viene ricordato il fare disinvolto di coloro che usano il titolo di professore per fini che niente hanno a che fare con la docenza: “In certe realtà come Giurisprudenza, Ingegneria o Architettura il titolo di professore serve per aumentare onorari e parcelle […] Non è raro poi che i professori a tempo definito si facciano sostituire da improvvisati docenti che in qualità di collaboratori di studio dell’affermato civilista o del rampante penalista, assistenti del noto architetto o sottoposti del primario, tengano lezioni al loro posto” (pag. 53). Una realtà dove l’insegnamento rischia di passare in secondo piano: “l’attività didattico riveste un ruolo spesso secondario all’interno della vita accademica. Quello del docente universitario è l’unico mestiere, all’interno della pubblica amministrazione, in cui vige l’autocertificazione dell’orario di lavoro. L’attività didattica è rimasta talmente marginale nella vita accademica che negli ultimi concorsi (l’Abilitazione scientifica nazionale) è possibile ottenere un giudizio positivo senza aver dato prova di saper insegnare” (pag. 53).
In altri termini il professore universitario tipo non viene colto soltanto nei suoi vezzi più ridicoli e fastidiosi, con tutte le immagini più sconfortanti di liturgia del potere, di nevrosi, egolatria e vanità, ma è descritto in un contesto di particolare inefficienza, dove ormai il precariato dei ricercatori è la regola, dove ancora i concorsi servono a consolidare il potere baronale, e dove la più recente normativa, dalla legge Berlinguer alla legge Gelmini, sembra proprio aver causato nuovi danni. Un libro che però non vuole rappresentare soltanto una critica distruttiva e sarcastica. L’autore, citando “L’economia giusta” del compianto Edmondo Berselli, diventa propositivo e invita semmai a prendere atto che il mondo è cambiato, che le intelligenze e le pratiche virtuose non mancano e da queste, “per un’università normale”, bisogna ripartire
Edizione esaminata e brevi note
Stefano Pivato, insegna Storia contemporanea all’Università degli Studi di Urbino Carlo Bo. Storico della mentalità e dei comportamenti collettivi, ha al suo attivo numerosi saggi e volumi. Ha ricoperto varie cariche accademiche e, dal 2009 al 2014, è stato rettore dell’università nella quale è docente.
Stefano Pivato,“Al limite della docenza. Piccola antropologia del professore universitario”, Donzelli (collana Saggine), Roma 2015, pp. VI-122.
Luca Menichetti. Lankelot, febbraio 2015
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