“Goodbye Telecom” non è soltanto un pamphlet ma piuttosto il racconto di vicende viste molto da vicino. E non potrebbe non essere così se pensiamo che Maurizio Matteo Dècina è vicepresidente dell’Associazione degli azionisti di Telecom Italia, referente dei tanti piccoli investitori concretamente truffati da una banda di capitalisti all’italiana. In altri termini la storia di come dei predatori travestiti da “capitani coraggiosi” abbiano spolpato un’azienda con grandi potenzialità, danneggiando circa 600mila piccoli azionisti che pure detengono oltre il 50% del capitale, ma che a causa della normativa italiana si sono trovati praticamente impossibilitati a far confluire le loro deleghe su un’associazione. Il risultato è sotto gli occhi di tutti, col concreto pericolo, nemmeno considerato tale da politici miopi o in malafede, di un ulteriore spolpamento da parte di Telefónica, replicando in peggio quanto combinato anni addietro da imprenditori senza scrupoli oltre che ignorati o ben protetti dal potere politico.
Come spiega Dècina nel suo libro, peraltro scritto con un linguaggio molto chiaro e tale da rendere intelligibili molte delle manovre societarie targate Telecom, questa vicenda, privatizzazione compresa, non ha ovviamente nulla a che vedere con un virtuoso funzionamento del mercato e di un sano capitalismo, con buona pace di chi in questi anni ha sbrigativamente respinto al mittente critiche e allarmi come cascami di una superata concezione statalista dell’economia. Salvo poi pretendere l’intervento dello Stato quando poteva risultare utile alla propria fazione politica. Silvio Sircana, intervistato da Dècina insieme ad altri noti personaggi come Massimo D’Alema, Luigi Zanda, Silvio Sircana, Elio Lannutti, Franco Bernabè (uno dei pochi che avrebbe tentato di mettere un freno al saccheggio), Marco Patuano e Vito Gamberale, ci dice che, se siamo giunti a questo punto, la responsabilità della politica è chiara: aver interpretato le privatizzazioni in modo sbagliato, non aver mai controllato i successivi passaggi di gestione dell’azienda, nella considerazione che “il dibattito tra public company e nocciolo duro non è mai esistito minimamente. Il secondo ha sempre avuto la meglio sul primo, anche e soprattutto a causa della connivenza della politica” (pag. 148). Per poi aggiungere che la Sinistra non avrebbe bloccato il progetto di un gruppo di imprenditori sconosciuti che volevano scalare a debito l’azienda in quanto i DS innanzitutto volevano scrollarsi di dosso l’etichetta di partito operaio, cercando nuove alleanze e così sperando di allargare i consensi.
In virtù della sua esperienza di giovane manager delle telecomunicazioni negli anni dei “capitani coraggiosi”, Dècina svela finalmente in maniera organica l’intreccio politico ed economico che ha portato alla privatizzazione di Telecom, fino ai retroscena del piano di acquisto di Telefónica, e soprattutto le gesta della cosiddetta “banda della banda larga”, gruppo trasversale che ha e ha avuto come unico scopo il drenaggio di ricchezza e che di fatto ha tarpato le ali all’innovazione del settore. Si ricorda come quello che fu il “progetto Socrate”, che avrebbe portato alla cablatura di 20 milioni di abitazioni sia finito nel nulla in quanto a seguito della privatizzazione chi doveva gestire, anche grazie ad un’obsoleta normativa, ha messo al primo posto il proprio arricchimento (il debito che avrebbe dovuto ricadere sugli azionisti di controllo per l’acquisto dell’azienda si è riversato sull’azienda stessa portando a delle gestioni rivolte al taglio dei costi e alla rinuncia degli investimenti), spolpando l’azienda e quindi ostacolando l’innovazione e lo sviluppo dei servizi. In questo senso, secondo Lanutti, la Telecom rappresenta bene il paradigma dell’Italia e di un capitalismo di relazione “dove non governano coloro che rispettano le regole, ma soltanto coloro che piegano la legalità e le regole ai loro interessi di bottega, mortificando gli interessi più generali” (pag. 86). Capitalismo di relazione che potremmo pure definire quello fatto da imprenditori che non rischiano in proprio, secondo i canoni del tanto invocato liberismo, ma fanno rischiare gli altri. Il racconto di Dècina prosegue coerentemente con le vicende dello spionaggio illegale, la falsificazione dei bilanci, i flop commerciali, i licenziamenti di massa, la svendita di migliaia di centrali telefoniche, sotto la “guida” di manager che, come molti sanno, fino ad ora non hanno mai pagato per quanto combinato ed anzi sono stati gratificati con liquidazioni di centinaia di migliaia di euro. I nomi di Tronchetti Provera, Colannino e di altri manager scelti dai “bankster” (per metà banchieri e per metà gangster), sono sempre presenti.
Viene analizzato il ruolo anche delle banche d’affari, delle Morgan Stanley e Goldman Sachs, e delle lobby finanziarie che, “in collaborazione con i governi di Destra e di Sinistra, hanno trasformato la più grande azienda italiana in un vuoto a perdere per investitori stranieri”, come se tutto o molto di quanto successo in questi anni fosse stato già pianificato da tempo. C’è da dire che Dècina ci risparmia sparate complottiste ed anzi prende le distanze da certo modo di intendere le trame finanziarie del nostro tempo, salvo prendere atto di come ormai siano in piena attività lobby potentissime e fuori controllo: “Che ci sia dunque la cospirazione di un Nuovo Ordine Mondiale per controllare i singoli Stati, con le rispettive azienda chiave, attraverso lo strumento della moneta? Se si cambiasse la parola ‘cospirazione’ con ‘globalizzazione’, e le parole ‘Nuovo Ordine’ con ‘finanza mondiale’, potrei anche essere d’accordo, tralasciando assurdità quali incappucciati, club segreti o riti occulti. Nel caso Telecom, gli ingredienti ci sono tutti: indebitamento fuori controllo, svendita degli asset attraverso le solite merchant bank, controllo totale del cda da parte di cordate finanziarie, operazioni di dossieraggio illecite su cui è calato il segreto di Stato e tante altre coincidenze. In alcuni di questi episodi la collusione con la finanza internazionale e la sudditanza delle istituzioni politiche è una realtà evidente. La nostra classe politica è troppo ignorante, corrotta e subdola per potersi permettere di competere contro questo tipo di poteri che muovono masse ingenti di denaro. Queste lobby finanziarie, muovendosi in un habitat naturale senza ispezioni e controlli, hanno trovato nel nostro Paese le condizioni ideali per il saccheggio” (pag. 119).
La soluzione per evitare che Telecom sia cannibalizzata da Telefónica? Secondo Dècina, qui anche nelle vesti di vicepresidente di Asati, si dovrebbe far leva sull’azionariato italiano polverizzato ed arrivare nel giro di cinque anni a creare una coalizione pari al 10% delle quote per mandare uno o più membri al cda. E comunque – auspicio di questi tempi decisamente provocatorio – la necessità che lo Stato non si limiti più al finanziamento dei debiti contratti con le banche, ma torni in qualche modo a fare il suo mestiere: controllare e proporre innovazione, magari finendola una volta per tutte di coccolarsi manager che fino ad ora hanno interpretato il capitalismo alla stregua di Al Capone.
Edizione esaminata e brevi note
Maurizio Matteo Dècina, è vicepresidente dell’Associazione degli azionisti di Telecom Italia (Asati). Laureato con lode in Economia e commercio con una tesi sulle fibre ottiche, ha iniziato la sua carriera nella società di consulenza internazionale Ernst & Young, occupandosi di strategie e finanza. Dal 1996 ad oggi ha lavorato come analista finanziario in progetti di innovazione e sviluppo. Ha ricoperto anche la carica di capo area nella controllata Auna Telecomunicaciones, secondo gestore spagnolo dopo Telefónica. È autore di un corso multimediale di Economia politica in Cd-Rom distribuito nelle maggiori università italiane. Ha creato e gestisce dal 1999 il sito economiapolitica.it
Maurizio Matteo Dècina, “Goodbye Telecom. La banda della banda larga, il piano di Telefónica e il nuovo ordine mondiale”, Castelvecchi (Collana Rx), Roma 2013, pag. 188
Luca Menichetti. Lankelot, gennaio 2014
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