Le domande che la filosofa Marie-José Mondzain si è posta a premessa del suo saggio “L’immagine che uccide”, investono in primo luogo quello che viene chiamato «il dominio incontestato del visibile e dello spettacolo”. Difatti «la rivoluzione cristiana è stata la prima e l’unica dottrina monoteista ad aver fatto dell’immagine l’emblema dal suo potere e lo strumento di tutte le sue conquiste» (pp.6). In altre parole si era istituita una sorta di iconocrazia, favorita da una paura dei simulacri che poi ha lasciato spazio al culto delle imitazioni. Sempre secondo la Mondzain bisogna arrivare all’11 settembre 2001 per assistere ad un colpo potentissimo contro questo “impero del visibile”. Gli attentati in diretta tv avrebbero segnato una novità epocale anche nel modo di immaginare e rappresentare la violenza.
In questo contesto, ormai fortemente condizionato dal terrorismo e da un nuovo regime di comunicazione di guerra, lo studio della filosofa è stato orientato non verso una sorta di lavoro esplicativo ma volto semmai a comprendere cos’è un’immagine, che rapporti intrattiene con la violenza e «che possibilità le restano di offrire a una società non criminale» (pp.9). Una “meditazione” che ha voluto dire un percorso scandito in quelle tappe che, di fatto, corrispondono all’analisi dell’immagine nella sua relazione col visibile: dall’incarnazione all’incorporazione e poi alla personificazione. La morte e i gesti più cruenti, che vengono ormai dispensati senza remore ad un pubblico che inorridisce e nel contempo ne viene affascinato, sono diventati oggetto di analisi politica e di nuovi interrogativi. Quando ci si domanda se un’immagine può uccidere o può rendere assassini, allora si comprende perché gli studi più recenti si sono orientati all’analisi della formazione degli sguardi e al saper comprendere cos’è davvero un’immagine.
Marie-José Mondzain, come ricordavamo, è infatti partita da lontano, in particolare dal primo pensiero cristiano che ha stabilito «la legittimità dell’immagine, non solo liberandola dalla sua potenza portatrice di morte, ma anche conferendole un potere salvifico e persino redentore» (pp.30). Preso atto che il Messia cristiano non è il clone di Dio, sempre secondo la filosofa, «la sola immagine che immagine che possiede la forza di trasformare la violenza in libertà critica è l’immagine che incarna» (pp.31). Compare la parola incarnare che viene intesa come operare in assenza delle cose dare visibilità ad una assenza. Incorporare invece significa costituire le tre istanze indissociabili di visibile, invisibile e di sguardo che mette in relazione. Relazioni e concetti che le istituzioni ecclesiastiche hanno praticato e, difatti, la stessa Chiesa avrebbe sofferto di questa tensione tra visibile e invisibile, tanto che «le contestazioni del potere ecclesiale si sono sempre accompagnate ad aspri dibattiti sia sull’immagine che sull’eucarestia» (pp.35).
Tutte riflessioni che oggi si arricchiscono del capitolo relativo alla violenza mediatica. Non è un caso se il pensiero di Marie-José Mondzain sia andato prima al compositore Karlheinz Stockhausen che arrivò a definire gli attentati dell’11 settembre come “la più grande opera d’arte di tutti i tempi”. Se è vero che questa affermazione provocatoria sollevò un coro di proteste, viene però sottolineato qualcosa di più profondo: «quello che il compositore comprendeva allora è che i registi del copione dell’11 settembre erano riusciti ad avere uno spazio sulla scena dello spettacolo di una storia di cui ormai gestivano la fantasia funzionale di tutti gli spettatori della terra. Non si trattava di rendere omaggio a dei criminali, ma di far capire che i nuovi registi, i nuovi compositori […] avevano dato via a un nuovo ordine delle cose per lo sguardo e le orecchie del mondo intero» (pp.125). Parimenti, proprio per evidenziare la potenza «dell’energia mediatica sullo spettacolo della morte stessa” (pp.128), viene analizzata la rappresentazione teatrale di Jan Lauwers “L’arte del divertimento”: il protagonista è l’attore Dirk Roofthooft che, ormai invecchiato e con problemi di memoria, ha deciso di uccidersi sul palco di un reality show. Esempi che ci ricordano come, a partire dal fatidico 11 settembre, «il mondo politico, militare e terrorista si sia impossessato di tutto lo spazio mediatico in cui si trova il reale e in cui è interpretato massicciamente come performance» (pp.130).
Le conclusioni di Marie-José Mondzain non sono rassicuranti, tanto più in presenza di «un mondo che sembra voler difendere una forma di democrazia e che invece non fa che procedere inesorabilmente lungo un precipizio». Siamo ormai prigionieri di una società nella quale «il visibile è un mercato che non smette di uccidere le immagini e con esse ogni speranza di libertà» (pp.135). Di conseguenza «si decide di controllare l’immagine per assicurarsi il silenzio del pensiero e, quando il pensiero ha perso i suoi diritti, si accusa l’immagine di tutti i mali, con il pretesto che sia fuori controllo […] Pensare l’immagine vuol dire rispondere del destino della violenza» (pp.137).
Edizione esaminata e brevi note
Marie-José Mondzain, è filosofa e direttrice di ricerca al Centre national de la recherche scientifique (CNRS) di Parigi. Specialista di arte e immagini, si è occupata dell’iconoclastia bizantina e di rappresentazioni moderne. Tra i suoi libri tradotti in italiano: Immagine, icona, economia. Le origini bizantine dell’immaginario contemporaneo (Jaca Book 2006) e Il commercio degli sguardi (Medusa 2011).
Marie-José Mondzain, L’immagine che uccide. La violenza come spettacolo dalle Torri gemelle all’Isis, traduzione di Eleonora Montagner, EDB, Bologna 2017, pp. 144, € 13,50.
Luca Menichetti. Lankenauta, novembre 2020
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