“Il culturalismo pone l’accento sull’oggetto difeso e cerca di determinarne l’atto di difesa a seconda della natura di quello, ricercandovi il fondamento della sua legittimità. Poiché questa legittimità viene individuata nella convinzione che la pace non possa essere difesa se non pacificamente, la cultura non possa essere difesa se non culturalmente, la parola non possa essere difesa se non verbalmente, ne deriva che difendere usando la violenza non sia altro che violenza, per cui si limita concettualmente l’efficacia di quest’ultima, e alla fine per necessità logica si arriva ad affermarne l’invalidità. Una volta negata la forza dal punto di vista etico, si è spinti a dimostrarne l’invalidità in quante tale, cosa che nella realtà rappresenta solo una catena di processi psicologici dettati dalla paura. È attraverso questo percorso che il culturalismo, dalla negazione della violenza, si spinge fino a negare definitivamente l’autorità dello Stato”. p.59
Questo problematico 2020, tempo che sarà ricordato per il radicale cambiamento delle nostre consuetudini di vita conseguente alla pandemia, è anche il periodo in cui ricorrono i 50 anni dalla tragica e spettacolare morte del letterato nipponico Yukio Mishima, avvenuta per mezzo del seppuku, il suicidio rituale del samurai, il 25 novembre del 1970. Una morte programmata alla quale Mishima si era avvicinato studiando nel dettaglio ogni particolare, scegliendo peraltro uno stile di vita e una conseguente letteratura che vi corrispondesse, coerente col senso della sua dipartita. L’Italia ha dimostrato negli ultimi anni un interesse crescente, a livello editoriale, rispetto alla letteratura dell’artista nipponico, e non solo a livello mainstream con la ripubblicazione di opere di narrativa da parte di case editrici come Bompiani, Guanda, Se e Feltrinelli. Questo strano anno, in effetti, celebra Yukio Mishima attraverso tre interessantissime opere che ci fanno conoscere meglio l’uomo, il letterato, il poeta, l’esteta, il guerriero. Perché Mishima è stato tutto questo, e anche qualcosa di più. Qualcosa che resta forse inafferrabile per noi occidentali, ma ciò non può e non deve inficiare la curiosità che inevitabilmente può destare un simile personaggio. La più particolare, tra le italiche iniziative editoriali dell’anno che sta per concludersi, è certamente lo splendido fumetto ideato da Federico Goglio e illustrato da Massimiliano Longo, Yukio Mishima. Ultimo Samurai, edito da Ferrogallico. Non meno interessante, e unica nel suo genere, è l’opera curata dall’ottimo Alex Pietrogiacomi, Mishima. Martire della bellezza, edita da Alcatraz, che è il primo aforismario dedicato al grande letterato giapponese. Terzo in ordine temporale, ma decisamente il più rilevante per valore editoriale e per contenuto – ci fornisce informazioni fondamentali per meglio addentrarci nella complessità dell’autore – è La difesa della cultura, Idrovolante Edizioni, saggio che contiene riflessioni etiche, politiche e filosofiche che lo stesso Mishima ci dona per meglio avvicinarci alla comprensione del suo stile di vita e delle sue scelte, quelle che lo portarono a togliersi la vita in piena consapevolezza di sé. Curato dal più che competente Daniele Dell’Orco – che in un lucidissimo saggio introduttivo contestualizza il gesto estremo di Mishima alle luce dei sommovimenti del Giappone a lui contemporaneo, derivante da scelte e riflessioni di carattere sia etico che estetico -, La difesa della cultura è un’opera fondamentale per (ri)leggere Yukio Mishima; per capire e meglio apprezzare, con una base decisamente più solida, non solo la sua estetica narrativa ma anche e soprattutto le suggestioni etico-culturali e le esperienze che ne sono alla base, in particolare nell’ultimo decennio della sua vita.
Dopo l’introduzione l’opera si articola in cinque brevi saggi, una postfazione, e chiude con le ultime parole di Mishima lasciate non tanto ai posteri, che restano una categoria tutto sommato indefinita, quanto più ai ragazzi del Tate No Kai, il suo giovane esercito privato. Nel primo saggio, Dichiarazione anti-rivoluzionaria, Mishima comincia ad articolare la sua difesa della tradizione del Giappone criticando il concetto di rivoluzione, e scagliandosi in particolare contro quella che ebbe origine dal “Manifesto del partito Comunista”, imputando in sostanza al materialismo storico, nelle declinazioni sia nazionaliste che internazionaliste a cui dette vita il “socialismo reale”, di voler rovesciare qualsiasi ordine esistente. Vi è da notare come, già a partire da questo scritto, l’artista nipponico si soffermi sull’analisi degli effetti della dottrina comunista sul Giappone per formulare un discorso che, ad una più attenta analisi, assume caratteri più universali, contribuendo così ad ampliare ai lettori che lo conoscono solo per le sue opere di narrativa, la conoscenza di una personalità davvero molto composita e sfaccettata. E la prova di ciò la abbiamo subito nel secondo saggio, La difesa della cultura, nel quale Mishima si interroga sul concetto di cultura, introducendoci alla nozione del termine “culturalismo”, ovvero alla “tendenza a giudicare la cultura nei termini di una gratificante conquista umana, separandola dalla vitalità della sua matrice sanguinosa e del suo atto riproduttivo. Così essa rappresenta un patrimonio comune dell’umanità, qualcosa di bello e inoffensivo, come una di quelle fontane posticce dei centri commerciali”. Il culturalismo è, per Mishima, un’ideologia che pone l’arte al di sopra ogni altra questione, che sia essa etica, morale, spirituale o d’azione. In ciò non è difficile scorgere il monito che il letterato giapponese lanciò ai suoi connazionali, per la perdita progressiva della connessione tra “spada” e “crisantemo”, connubio tipico tra forza e bellezza, tra azione e ideale, venuto meno con la sconfitta del Giappone nella seconda guerra mondiale e con la conseguente occupazione americana. Ciò che colpisce, anche in questa sua seconda analisi proposta, è la capacità d’analisi e di sintesi che mette in mostra Mishima, il quale fa uso di immagini retoriche, metafore, potentissime allegorie per fornire al lettore una chiara visione etico-politica i cui riflessi vanno ben oltre, a ben guardare, gli effetti che tutto ciò avrebbe – e che in sostanza già aveva – sul suolo patrio, per invece immaginare un discorso che travalica i confini dell’estremo oriente per approdare nelle lande occupate dell’occidente. Sia quelle occupate con la forza, che quelle occupate “democraticamente”. Nel terzo saggio, Lettera aperta a Bunzo Hashikawa, Mishima si confronta con il politologo e storico Bunzo Hashikawa, noto in particolare per i suoi studi sul nazionalismo giapponese, attraverso il quale tra attestati di stima, critiche personali e polemiche, i due letterati si confrontano sia direttamente che indirettamente sulla figura dell’Imperatore e sul nazionalismo, alla luce degli sconvolgimenti che ha portato il secolo breve, e sui possibili approdi futuri rispetto non soltanto al pericolo comunista, ma anche ai mutamenti indotti da un declino culturale che avrebbe radici più lontane e profonde, sui quali ambedue – pur in diverso modo – sembrano concordare. Con il quarto saggio, La logica della rivoluzione morale, Mishima ci fornisce un’analisi profonda e dettagliata dei famosi – per il Giappone – “Fatti del 26 febbraio”. Gli eventi sui quali cerca di far luce il letterato giapponese si riferiscono al 26 febbraio 1936, giorno nel quale 1400 soldati di stanza a Tokyo, guidati da un gruppo di Giovani Ufficiali, dei quali il Capitano Isobe era uno dei capi, attaccarono i centri di potere uccidendo e ferendo gravemente ministri e alte cariche pubbliche. Fu una vicenda che segnò profondamente il Giappone del tempo, un tentativo di colpo di Stato che mirava a destabilizzare le oligarchie finanziarie e che rivendicava con forza una riforma agraria che risolvesse la situazione di estrema povertà in cui versavano i contadini. Qui ci inoltriamo nel cuore pulsante dell’analisi mishimiama, che ci regala pagine davvero ispirate nelle quali scandaglia, anche psicologicamente, la figura di Isobe, tenendosi a logica distanza dagli eventi in alcuni frangenti dell’analisi, ed in altri invece quasi immedesimandovisi. Mishima critica per la sua ingenuità l’ufficiale suo conterraneo, ma non rinuncia a penetrarne l’intima disposizione al raggiungimento di uno scopo dall’alto valore spirituale, fino a trovarne profonda vicinanza. Del resto non è un mistero, per chi conosce questo autore straordinario, che i “Fatti del 26 febbraio” abbiano avuto un’influenza notevole sulle opere dell’ultimo periodo, a partire da Patriottismo, mediometraggio del 1966 da egli stesso diretto e ispirato al racconto omonimo, a La voce degli spiriti eroici, per finire con Cavalli in fuga. In Libertà e potere, il saggio che precede la postfazione, Mishima ritorna ad indagare, in maniera ancor più incisiva, il rapporto tra politica e libertà, tra Stato, democrazia e forme di potere. Lo fa calandosi in Europa, analizzando la condizione della Cecoslovacchia, di fatto imprigionata nelle maglie di un sistema socialista davvero oppressivo. Mettendo in luce, in ultima analisi, le contraddizioni e le evidenze di un Occidente ingabbiato dalle logiche di dominio dei due blocchi.
Nella postfazione Mishima si congeda dai suoi lettori attraverso brevi riflessioni generali, anche di carattere politico, che delineano il suo percorso di uomo, artista e letterato, alla luce della sua evoluzione e dei suoi approdi morali, estetici e intellettuali, culminati con la formazione del suo piccolo esercito privato di giovanissime leve e con la pianificazione del suicidio rituale. Ma il vero ultimo lascito ideale è il breve scritto che Mishima compone il 7 luglio del 1970, pochi mesi prima di togliersi la vita, Una promessa che non ho potuto mantenere. Già tradotto da Lydia Origlia e incluso nel volume Lezioni spirituali per giovani samurai, nella nuova traduzione di Silvio Vita si basa su una più fedele comprensione del testo giapponese, donandoci parole sincere, prive di qualsivoglia sovrastruttura, forti di una totale consapevolezza di sé. Una lucida sintesi delle contraddizioni che lo hanno portato al gesto di vibrante protesta con cui, suo malgrado, verrà ricordato anche da chi non ha mai letto una virgola dei suoi libri, ma avrà comunque l’ardire di annoverarlo tra i cattivi maestri della storia del Novecento. “Vibrante protesta”, prendo a prestito non a caso l’emblematico verso conclusivo di uno dei testi più politici scritti da Fabrizio De André (La domenica delle salme), perché partendo dalla fine della sua parabola terrena vorrei celebrare Yukio Mishima, e questo libro in particolare, riconoscendo a Daniele Dell’Orco il grande merito di averne ottenuto i diritti durante un viaggio nella terra del Sol Levante, regalando in tal modo un’opera imprescindibile a tutti coloro che amano il letterato nipponico. E come Dell’Orco ci spiega bene nell’introduzione, quello che tentò Mishima nel giorno del suo suicidio rituale tramite seppuku non fu certo un tentativo di colpo di Stato. E chi crede ciò o è in malafede o davvero conosce poco del personaggio in questione. Non fu un tentativo di colpo di Stato ma un riuscitissimo colpo di teatro, nonostante non tutto andò come immaginato e alcuni risvolti furono dolorosamente tragicomici. Ma ciò non conta. Non conta lo scherno, non conta il fatto che il suo proclama, oltre che dileggiato, rimase sostanzialmente inascoltato. Un colpo di teatro per mettere in scena un atto di protesta, di “vibrante protesta”, per congedarsi dal suo popolo e dalla vita stessa, contro un sistema di valori e contro le istituzioni che li rappresentavano; contro una morale e contro un sentire comune, che gli erano divenuti ormai totalmente estranei.
“Contro il fatto c’è la forza dell’immaginazione. E se riconoscere il fatto è l’unica prova di una fredda ragione, non è affatto sicuro che la libertà spirituale si schieri dalla parte del fatto. La libertà, in certe circostanze, non solo non si fa vincolare dal fatto, ma si sforza di far tendere la ragione a valori che superino il fatto. E la forza dell’immaginazione prospera basandosi sulla ragione che in tal modo è stata deliberatamente innalzata e viene formando quello che può dirsi il nucleo della libertà spirituale. A questo punto è facile che l’uomo libero diventi fanatico”. pp.123-124
Federico Magi, dicembre 2020.
Edizione esaminata e brevi note
Yukio Mishima, pseudonimo di Kimitake Hiraoka, è nato a Tokyo nel 1925. È uno dei casi letterari e sociali più interessanti della cultura giapponese moderna. Membro di una famiglia con discendenze samurai, ha raccontato nelle sue opere letterarie e drammaturgiche la difficile convivenza con la modernità, il disagio esistenziale e sociale rispetto alla civiltà industriale, la tensione ideologica tradizionalista e reazionaria. Come autore di bestseller conquistò la ribalta internazionale nel 1949 con la pubblicazione di Confessioni di una maschera. Seguirono poi I colori proibiti (1951-1952), La morte di mezza estate (1953), La voce delle onde (1954), Il padiglione d’oro (1956). La sua narrazione si pone nell’ambito di una ricerca estetizzante, non solo nel linguaggio ma anche nei temi: il mito della forza, l’equazione bellezza-violenza e bellezza-morte, l’erotismo. Negli ultimi anni di vita fondò un esercito privato, la Società dello scudo (Tate No Kai) che aveva come missione la salvaguardia dell’Imperatore. Il 25 novembre 1970 dopo aver esortato senza successo un reggimento di giovani militari ad unirsi a lui nella difesa della Casa Imperiale, eseguì il seppuku, il suicidio rituale per taglio dell’addome.
Yukio Mishima, La difesa della cultura (Bunka Boeiron, 1968), Idrovolante Edizioni, 2020. Introduzione di Daniele Dell’Orco. Traduzione di Silvio Vita e Romano Vulpitta. Immagine di copertina di Federico Graziani.
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