“Il gioco di Santa Oca” conferma, una volta di più, il talento di Laura Pariani che, a mio avviso, rimane una delle migliori scrittrici italiane viventi. In questo romanzo c’è il fascino di una storia che, in realtà, è composta da una miriade di storie perché è proprio questo che rende vivi gli umani: l’intreccio di accadimenti ma, soprattutto, la narrazione di quegli accadimenti senza la quale, ovviamente, la vita non avrebbe sostanza. E poi c’è la lingua, un miscuglio farsesco, divertente, sboccato, luminoso e anche un po’ sgangherato di mescolanze di idiomi, dialetti e sonorità che non esistono, o non sono mai esistiti, ma che riescono a portare il lettore in un fantomatico Seicento o, quanto meno, a condurre il Seicento fino ai giorni nostri.
I piani temporali del romanzo sono due, separati da un ventennio l’uno dall’altro: 1652 e 1672. Nel mezzo la figura di una sorta di Robin Hood lombardo che però si chiama, più semplicemente, Bonaventura Mangiaterra. Personaggio perseguitato per aver difeso i diritti dei più deboli e, proprio come l’eroe popolare che viene dal Regno Unito, per aver tolto ai ricchi per dare ai poveri. È nel 1652 che clero e nobiltà si alleano per dare la caccia a Mangiaterra e alla sua banda di soldataglia raccapezzata chissà dove. Quel Bonaventura pare sia bello e faccia vita casta, predica parole sacre e mantiene in piedi un clan di omacci che pendono dalle sue labbra e fanno quel che lui dice di fare.
“Conoscete la brughiera? Io ho mai fatta altra vita, qui si può mica scegliere: le vacche da accudire, il taglio del fieno in estate, la raccolta delle noci e delle castagne, la legna per l’inverno, le carbonaie… Questa l’è la sorte se nasci nella valle del Tesìn. Ché sta terra è madre severa: prati magri e pietraie, forre di muschio viscido, il campanile che dà il segnale di inizio e fine lavoro, le cassìne sparse. E, soprattutto, le cave, ultima risorsa nei periodi cattivi quando l’annata è più matrigna“. Questa la vita di tutti quelli che cercano di cavarsela nella brughiera lombarda, nonostante gli eserciti che vanno e vengono, nonostante nobili e preti che fanno e disfanno senza dare il minimo ascolto ai più disperati. Perché è così che è: “Il povero non è creduto. Siamo come le spighe, ci mangiano e ci calpestano. Per il pitòcco non c’è giustizia, solo la forca: e questa è verità vera, da urlare in tutte le lingue di Babele“. In questo mondo di povera gente che fatica e muore, la figura di Bonaventura Mangiaterra infrange gli squilibri e inquieta i potenti.
Poi venti anni dopo, in quel comunque lontano 1672, incontriamo una vecchia chiamata Pùlvara. “Conosceva un tempo questo finistèrre nostrano, l’ha traversato più volte in lungo e in largo vent’anni fa, epperciò molti particolari della brughiera li percepisce col cuore e con la memoria“. Camminante e narratrice di storie, la Pùlvara perché lei sa bene che qui, in queste nebbiose terre, condividere vecchi racconti è come pregare. “La gente di sta terra volpina ama infatti ascoltare racconti, poiché i nati in brughiera son creature ignude e spogliate d’ogni cognizione, simili a quella tavola rasa d’Aristotile nella quale non è scritta né dipinta alcuna cosa“. E infatti è questo che fa Pùlvara: cammina e racconta, racconta e conta lungo il tragitto del gioco di Santa Oca, si muove nella zona del Tesìn alla ricerca chi, vent’anni prima, è stato tradito da un suo “discepolo”, proprio come era successo a Cristo.
Tantissime le piccole narrazioni che infarciscono “Il gioco di Santa Oca”, un’abbondanza che non confonde, non delude e non stanca. Sarà che ogni minuscola vicenda ha una forza tutta sua, una forza che rischiara un tratto di strada o un pezzo di locanda o un angolo di palude fino a condurci all’ultima casella di un gioco che, in realtà, non può dirsi mai del tutto finito. I personaggi hanno nomi che, di per sé, sono già un racconto: Monsù Dicis-ma-non-facis, Ciapparàtt, Simùn Gamb-avèrt e così via. Il senso della fiaba c’è tutto in questo splendido romanzo, è il senso di chi sa immaginare e ricostruire con cura e verosimiglianza una terra e un popolo che potrebbero persino essere stati così come ce li racconta la Pariani.
Edizione esaminata e brevi note
Laura Pariani è nata nel 1951 a Busto Arsizio. La sua opera d’esordio, “Di corno o d’oro”, è una raccolta di racconti e risale al 1993. In seguito ha pubblicato “Il pettine” e “La spada e la luna” per Sellerio oltre a “La perfezione degli elastici (e del cinema)”, “La signora dei porci”, “La foto di Orta”, “Quando Dio ballava il tango”, “L’uovo di Gertrudina” e “La straduzione” tutti per Rizzoli. Più recenti “Le montagne di Don Patagonia” edito da Interlinea, “Il piatto dell’angelo” (Giunti) e “Nostra signora degli scorpioni” con Nicola Fantini (Sellerio). Per Einaudi ha pubblicato “Dio non ama i bambini” (2007), “Milano è una selva oscura” (2010, finalista al Premio Campiello), “La valle delle donne lupo” (2011), “Questo viaggio chiamavamo amore” (2015), “«Domani è un altro giorno» disse Rossella O’Hara” (2017), “Di ferro e d’acciaio” (2018), “Il gioco di Santa Oca” (2019), “Arrivederci, signor Čajkovskij” (2019).
Laura Pariani, “Il gioco di Santa Oca“, La Nave di Teseo, Milano, 2019.
Pagine su Laura Pariani: Wikipedia / Sito ufficiale / Treccani
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