Laura Biancini, la curatrice del volume edito da Iacobelli, ricordava Ceccarius, alias Giuseppe Ceccarelli, ormai anziano, nella veste di celebre cultore della storia e delle tradizioni della città di Roma. Con la lettura delle lettere e dei diari di guerra invece “si è sostituita l’immagine di un giovane ventisettenne […] ora protagonista di vicende completamente diverse, personali e familiari sullo sfondo della Grande Guerra” (pp.39). Testimonianze che svelano aspetti fino ad ora meno noti del giovane Ceccarelli, da lì a poco esplicitamente nazionalista e poi fascista – come scrive il nipote Giacomo – “di matrice non tanto politica, quanto piuttosto culturale” (pp.19). Nello stesso tempo pagine di memorialistica che confermano i patimenti psicologici e materiali cui furono sottoposti i militari italiani al fronte; per non parlare dei prigionieri, umiliati dal giudizio infamante del generale Cadorna e, per lungo tempo, volutamente lasciati in balìa del nemico.
Ceccarelli, da poco vedovo e con una figlia di pochi mesi, si lasciava alle spalle una delicata situazione economica e familiare: le lettere, scritte durante i mesi di addestramento e poi dal fronte, tornano più volte sull’attività dei genitori, sui contrasti insanabili con i parenti della fidanzata. Vicende che riempivano notte e giorno i pensieri della giovane recluta e che si intrecciavano con l’evidente ansia di fare il proprio dovere al meglio e di tornare a casa con onore.
Come ancora scrive Laura Biancini, se le lettere mantengono un tono “assai più pacato e rassicurante per non creare ansia in chi legge” (pp.41), i diari, redatti durante l’internamento a Cellelager, rivelano tutte le reali priorità dei prigionieri: vestiti decenti per ripararsi dal freddo, biancheria pulita, un bagno vero, il desiderio di un pranzo degno di questo nome, dimenticarsi di colazioni a base di pelle di foca bollita. Ed invece: “il mangiare è troppo poco. Avevamo un po’ di riso che abbiamo fatto cuocere con l’acqua. Era insipido, ne sono toccati pochi cucchiai per ciascuno, ma ci ha fermato lo stomaco” (pp.237); “Continuano le scene di lotta per un pezzo di pane ed una galletta. Veramente indecente” (pp.238).
È vero poi che gran parte delle lettere rivolte ai familiari sono state scritte con uno stile ormai desueto, con alcune espressioni un po’ stucchevoli; ma nel complesso le pagine di Ceccarelli non conoscono autocommiserazione, rivelano una solida fede religiosa ed anche la retorica, soprattutto in riferimento ai diari di prigionia, ci sembrata ridotta ai minimi termini. È una testimonianza incentrata innanzitutto sui bisogni materiali degli uomini al fronte, dove la tattica e la strategia militare viveva sullo sfondo.
Leggendo le lettere di Ceccarelli alle prese col Corso Ufficiali di Brescia possiamo cogliere quanto fosse rigida la disciplina del regio esercito; con conseguenze a volte paradossali, come se gli allievi venissero addestrati a convivere con la sporcizia: “nel pomeriggio c’è la doccia che solo la domenica ci viene fatta fare” (pp.132). In compenso guai a non avere le scarpe lucidissime, in quel di Brescia una priorità assoluta. Insomma, a quanto pare, il regio esercito faceva di tutto per preparare al meglio degli ufficiali che fossero lucidissimi e puzzolenti.
Un’igiene molto discutibile, frutto anche di abitudini proprie della vita civile del tempo, che – immaginiamo – avrà reso forse meno traumatica la perenne lotta con la sporcizia (accompagnata da una fame cronica) di cui scrive ripetutamente Ceccarelli dal fronte e poi dal Cellelager.
Pagine che però non sono soltanto rappresentazione di affetti familiari, di amor di patria e poi di umiliazioni e patimenti: il valore di testimonianza di queste lettere e diari lo cogliamo anche nel racconto di quelle che, al giorno d’oggi, possono essere considerate autentiche stranezze. Citiamo le parole di Giacomo Ceccarelli, autore di una premessa biografica (Carlo Perrucchetti invece ha scritto più specificamente su “Cellelager 1917-1918”): “in quei terribili lager la cultura non veniva del tutto decapitata. Ai detenuti era permesso organizzare conferenze di vario tipo, e qualche volta assistere ad alcuni concerti. Così tra Ceccarius e gli altri sventurati si discorre tranquillamente di Nietzsche, Carducci, Dostoevskij, D’Annunzio, e si va a sentire il Coriolano di Beethoven o l’Ave Verum di Gounod. Niente sotto i denti, ma la testa quasi sazia, surreale compromesso” (pp.17).
In appendice possiamo leggere alcune poesie in romanesco scritte da Ceccarelli nel periodo di detenzione. Chiaramente sono componimenti d’occasione, privi di un autentico valore letterario, ma, pur pensati con maggiore leggerezza e ironia, ancora una volta tornano prepotentemente i temi di sempre: Roma, l’ansia di tornare a casa, la fame.
Edizione esaminata e brevi note
EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE
Giuseppe Ceccarelli, (Roma 1889-1972), noto come “Ceccarius”, fu giornalista, studioso di romanistica, collezionista. Occupò un ruolo significativo nella vita culturale e politica della sua città. Fondatore tra l’altro del Gruppo dei Romanisti, partecipò in prima persona al dibattito attorno a proposte e progetti per la trasformazione di Roma.
Giuseppe Ceccarelli, “Lettere e diari dal fronte e dalla prigionia (1915-1918)” (collana Frammenti di memoria), Iacobelli, Pavona di Albano Laziale 2015, pp. 404. A cura di Laura Biancini.
Luca Menichetti. Lankenauta, aprile 2016
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