Questa splendida e a tratti frastornante opera di Paul Schrader, regista, sceneggiatore e critico cinematografico statunitense, purtroppo poco nota nonostante la produzione esecutiva di due colossi hollywoodiani quali Coppola e Lucas, è l’unica rappresentazione di celluloide che indaghi, sia pur nelle sue linee essenziali ma con indubbia maestria e spiccato senso della messa in scena, la vita e l’arte di uno dei maggiori letterati del Novecento. Yukio Mishima, controverso romanziere giapponese, artista a tutto tondo, ha attraversato con le sue opere i primi venticinque anni che seguirono il secondo conflitto mondiale: evento fondamentale e argomento sempre presente, più o meno marcatamente, in tutta l’attività letteraria dello scrittore di Tokyo. Paul e Leonard Schrader suddividono la vita di Mishima in quattro capitoli simbolici che portano come titolo i capisaldi del suo pensiero, le sue intime ma ben evidenziate ragioni di vita: la Bellezza, l’Arte, l’Azione, l’armonia tra Penna e Spada. I primi tre capitoli trovano la loro esemplificazione più diretta e calzante in altrettanti romanzi simbolo del grande letterato giapponese: Il padiglione d’oro, La casa di Kioko e Cavalli in fuga. Tre storie estreme, come consuetudine dell’artista nipponico, che pongono al centro le vibranti ossessioni del letterato, diviso e riunito nell’incarnazione di tre personaggi che rappresentano in modo inequivocabile il travaglio interiore di Mishima, i suoi mutamenti, le sue prese di coscienza e la persistente consapevolezza che la distanza tra l’uomo e l’assoluto possa esser colmata dalla volontà, dall’autodisciplina e dalla capacità di agire su sé nel rispetto degli immutabili principi della tradizione nipponica, quella che andava cedendo sempre più il passo all’occidentalizzazione progressiva del Giappone.
La bellezza. Il corpo, i suoi difetti alla nascita. La maestosità e lo splendore annichilente della costruzione perfetta. Ne Il padiglione d’oro, il giovane accolito buddista Mizoguchi, irrimediabilmente balbuziente e per nulla aggraziato, vive forti frustrazioni nei confronti dell’altro sesso e si accompagna ad un coetaneo storpio ad una gamba, comunque belloccio e assai più spigliato di lui con le ragazze. Le continue umiliazioni, piccole grandi sconfitte imposte dalla vita, portano Mizoguchi ad acuire il profondo contrasto percettivo rispetto all’incantevole padiglione che accoglie la sua comunità, i monaci buddisti del tempio di Kyoto. Il padiglione è la causa della sua bruttezza, del suo fallimento: il contrasto tra la bellezza della costruzione e l’orrore di sé diverrà sempre più insopportabile, tanto da auspicarne una devastazione ad opera dei bombardieri americani. Miracolosamente scampato ai bombardamenti, il padiglione d’oro arderà sotto le fiamme di un incendio provocato proprio dal giovane accolito buddista. Schrader cala Mizoguchi e il suo ambiguo compagno di viaggio in una dimensione irreale, di cartapesta, creando una stanza fuori dal tempo incardinata in uno spazio visivamente alterato in cui l’ossessione divampa progressiva, visivamente intervallata dalla preparazione dell’ultimo atto estremo di Yukio Mishima, seguendo per tutta la durata del film una giornata articolata in cui l’artista nipponico, dopo aver spedito all’editore la sua ultima opera (Lo specchio degli inganni, volume culmine della tetralogia Il mare della fertilità), compirà il fatidico gesto. Parliamo evidentemente del 25 novembre del 1970, giorno in cui Yukio Mishima si dette la morte secondo il rituale tradizionale dei samurai: il seppuku.
Il padiglione d’oro, sapientemente scelto da Schrader come apertura di questo intenso viaggio filmico-letterario, evidenzia l’ossessione più incombente, allo stesso tempo irrinunciabile fonte d’ispirazione artistica, del giovane Mishima il quale, vista l’infanzia vissuta sotto l’ala protettiva, offuscante e claustrofobica di una nonna che l’aveva sottratto alla dimora materna poco più che neonato, aveva avuto davvero poche occasioni di socializzazione, confronto e identificazione con un altro da sé differente da quello immaginifico. Restituito alla madre preadolescente, il giovanissimo letterato, già incline a respirare e a manipolare l’arte, cominciò a trasferire in forma letteraria – inizialmente attraverso l’uso del verso poetico – le ossessioni per i corpi, trasfigurando la realtà secondo intimi desideri e necessità identificative. Il martirio di San Sebastiano, opera pittorica di Guido Reni, sulla cui riproduzione fotografica, non ancora adolescente, si masturbò per la prima volta; il teatro Kabuki, con le sue donne-uomo e quei volti truccati, indefiniti o androgini; le divise militari e i corpi scolpiti e levigati dall’esercizio fisico, diventano specchi in cui guardarsi, pulsioni erotiche o aspirazioni di mutamento ed emulazione. Tutta l’opera mishimiana, da Confessioni di una maschera a La voce delle onde, primo suo romanzo tradotto in Occidente nel quale l’unità tra corpo e spirito comincia a farsi evidente, manifesta l’inquietudine e e la non accettazione della propria esile corporatura, più il non risolto conflitto d’identità, per poi ritornare a manifestarsi come lotta consapevole, una volta cominciato il percorso per rimodellare il corpo fino a farlo coincidere con lo spirito, per un mondo in cui la bellezza, consequenziale alla scoperta-riappropriazione dello spirito eroico e tradizionale, si fortifichi e si estremizzi a livello tematico, proprio a partire dal Padiglione d’oro.
Al Padiglione (1956) seguono Una virtù vacillante (1957) e La casa di Kioko. Proprio La casa di Kioko dà modo a Schrader di sviluppare il secondo blocco tematico: l’arte. E l’arte, in Mishima, come risulterà chiaro ai suoi lettori, ha oramai definitivamente a che fare con la perfezione dei corpi, con la possibilità di plasmarli, quasi fosse lui stesso, nella vita come nella trasfigurazione letteraria, l’artigiano divino, il demiurgo di platoniana memoria. Osanu, il protagonista del romanzo, è un giovane attore che vive rapporti conflittuali con la madre e con il suo stesso corpo. Al proprio bel volto vorrebbe far corrispondere un fisico prestante, cercando pertanto il raggiungimento della perfezione totale intraprendendo la via delle arti marziali. Una volta ottenuti i risultati sperati diventerà l’oggetto di perverso piacere di una donna che comprerà il suo corpo come risarcimento per i debiti contratti dalla madre. Ne La casa di Kioko si mescolano, in una miscela sconvolgente, le pressanti ossessioni del letterato, in un delirio sadomasochista e decadente che palesa la vulnerabilità dei corpi soggetti al malsano impeto di deturpazione perpetrato da una follia erotica che risponde a inquietanti derive schizofreniche. La casa di Kioko amplifica a dismisura la dimensione estetica inseguita da Mishima, immaginando un’ideale di perfezione fisica comunque soggetto all’imprevedibilità delle scelte umane e alle contorsioni della mente, disegnando un labile confine in cui la ricerca dell’identità passa sempre per territori tortuosi e scelte radicali.
Anche in questa seconda parabola mishimiana, Schrader crea un universo visivo straniante, focalizzando ancor più le forme e affidandosi quasi totalmente all’immagine, seguendo con perfetta aderenza le suggestioni innescate nella rappresentazione del Padiglione. Lo stesso farà nella terza e ultima scelta tematica, quella che sintetizza i motivi di uno dei testi più fascinosi e destabilizzanti del letterato del Sol Levante, quel Cavalli in fuga, secondo dei quattro anelli della Tetralogia, che adombra in forma di romanzo lo sconvolgente epilogo della vita di Mishima. È il tempo dell’azione. Isao, giovane e talentuoso studente di kendo, vive nel culto totalizzante dell’Imperatore. Insieme a un gruppo militarmente attrezzato ed educato ai principi tradizionali è deciso a combattere il capitalismo e le degenerazioni dovute alla progressiva occidentalizzazione del Giappone. Verrà scoperto e imprigionato, e una volta libero si toglierà la vita secondo il rituale del seppuku. Cavalli in fuga è un romanzo splendido, potente, emblematico, nel quale è possibile riscontrare la maturazione e la consapevolezza raggiunta dal pensiero e dalla letteratura di Mishima. I nemici sono presto visibili: il capitalismo, l’occidentalizzazione del Giappone, la conseguente decadenza e la quasi impossibilità di restituire al suo popolo una Patria degna di questo nome. Mishima, ad una prima e superficiale analisi, sembra vivere fuori dal tempo, ma Schrader restituisce l’effettiva lucidità del letterato filmando la sua ultima giornata in questa vita non trascurando il minimo dettaglio. Lo spettatore capisce in fretta che l’epilogo tragico di un giorno apparentemente irrazionale è frutto di una pianificazione ragionata e immaginata per mesi, fors’anche per anni, e che il grande letterato conosceva bene e sapeva utilizzare secondo necessità gli amati-odiati strumenti comunicativi forniti dalla tanto vituperata modernità. L’ambiguità del personaggio è palese, tanto che Schrader – sapientemente – non usa mai toni elegiaci, avendo scelto di rappresentare la vita di un artista che ha palesato la sua grandezza di uomo e di letterato proprio nelle infinite contraddizioni portate ad evidenza.
La memorabile interpretazione di Ken Ogata, attore feticcio di Imamura (ricordiamo l’intenso La ballata di Narayama, del 1983) e notissimo in Giappone, peraltro da poco deceduto, è di quelle che lasciano il segno. Difficilmente la produzione avrebbe potuto trovare un Mishima più credibile, tanto che la trasfigurazione si fa quasi totale identificazione nelle gesta marziali e nella suggestiva rievocazione del quadro attraverso cui Mishima reincarna quasi fedelmente la posa del Martirio, nella quale San Sebastiano, denudato e inchiodato all’albero dalle frecce, eterna la sua solenne dimensione erotica, allo stesso tempo eroica e immortale. Magnetica la colonna sonora dell’ottimo Philip Glass, eseguita in un crescendo suggestivo che scandisce puntualmente i tempi del dramma.
Un film sulla bellezza e sulla morte, sul corpo e sullo spirito, sulle contraddizioni umane e la volontà di potenza, sulla ricerca di una dimensione assoluta che trascenda la mera caducità dei corpi e la finitezza degli esseri umani. Un film sull’arte, dove l’immagine rifugge ogni sorta di staticità apparente, in cui la scoperta dell’identità fa rima con coraggio, eroismo, ossequio alle leggi immutabili della tradizione. C’è questo nell’accecante fascino dell’opera diretta da Paul Scharder, c’è questo e molto più nei sentieri percorsi da Yukio Mishima, letterato che ha cercato e trovato l’immortalità attraverso una vita consacrata all’arte e vissuta sempre sopra le righe, avvolta nel mistero imperscrutabile dei suoi tragici personaggi e delle sue infinite maschere.
Federico Magi, ottobre 2008.
Edizione esaminata e brevi note
Regia: Paul Schrader. Soggetto: Chieko Schrader. Sceneggiatura: Paul Schrader, Leonard Schrader. Direttore della fotografia: John Bailey. Montaggio: Michael Chandler, Tomolo Oshima. Scenografia e costumi: Eiko Ishioka. Interpreti principali: Ken Ogata, Masayuki Shionoya, Hiroshi Mikami, Shigeto Tachihara, Ryo Ikebe, Yasosuke Bando, Hiroki Ida, Jun Negami, Kenji Sawada, Toshiyiki Nagashima, Naoko Otani, Sachiko Hidari, Setsuko Karasuma, Hiroshi Katsuno, Reisen Lee, Naoya Makoto, Hisako Manda. Musica originale: Philip Glass. Titolo originale: “Mishima: A Life in Four Chapters”. Produzione: Zoetrope Studios Filmlink International Lucas Film. Origine: Giappone, 1985. Durata: 124 minuti (versione originale con sottotitoli in italiano).
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