“Ho cominciato a pensare a questo libro parecchi anni fa assistendo, attraverso i servizi giornalistici, alle traversate del Mediterraneo compiute dai migranti; mi colpiva soprattutto la storia dei bambini che spesso viaggiavano (e morivano) da soli“: è così che Laura Pariani spiega la genesi di “Apriti, mare!” nella Noterella che chiude il romanzo. Tutto ebbe inizio nel 2018 e, scrive l’autrice, “alla fine del 2019 il testo era pronto. Poi ci è piombata addosso la pandemia. A marzo 2020, nella chiusura totale, ho riletto il tutto e ho cominciato a riscrivere il libro da capo“. Il romanzo, dunque, sembra prendere vita da due tragedie parallele e contemporanee, da una parte le ondate di esseri umani che cercano una vita migliore e si spostano tra continenti, dall’altra l’intera umanità che si ritrova a lottare contro un virus mortale che non conosce e che cerca di contrastare come può.
Nel cuore della visione letteraria della Pariani ci sono i bambini. Figli lasciati alla loro solitudine, messi in mare da genitori che vorrebbero per loro solo la salvezza o costretti a trascorrere mesi della loro infanzia chiusi in casa davanti a un computer. Sopravvissuti, in un senso o nell’altro. E sopravvissuti sono anche i personaggi di “Apriti, mare!”. Per lo più bambine, a dire il vero. La scrittrice costruisce un mondo distopico che conteggia gli anni a partire da quello che viene definito, generalmente, “incidente”. Ci sono un mondo e un’umanità prima dell’incidente e un mondo e un’umanità dopo l’incidente. Un anno zero che determina un ritorno a una sorta di Medioevo in cui tutto ciò che l’uomo è stato in grado di inventare, costruire e realizzare è perduto, in cui ogni conoscenza, anche la più semplice, è solo un vago ricordare, un mondo dove le tecnologie sono abbandonate da decenni e il potere, neanche a dirlo, è in mano a uomini che dominano tutto, e spesso con ferocia, in nome di un qualche Dio che parla attraverso il sacro libro.
L’incidente ha resettato l’intero pianeta e di quel che avvenne rimane memoria: “Il contagio colpì duro perché si trattava di una malattia sconosciuta, mai apparsa prima d’allora; senza contare che la popolazione era già profondamente indebolita dalla guerra che si era conclusa coi disastri nucleari appena tre anni prima. Sopravvissero all’epidemia solo i bambini e i giovani sotto i quindici anni. Di conseguenza la sapienza venne cancellata: i bambini non sapevano usare la tecnologia, non avevano le conoscenze per mantenere in moto le grandi centrali. Per un po’ tutto continuò a funzionare per inerzia, ma poco a poco il sistema si “spense”. Le città si svuotarono, il mangiare scarseggiava…“. Il pianeta ridisegnato dai bambini è approssimativo e basilare, si sopravvive come si può: “il paese più importante era senza dubbio l’Italia: linee e colori che indicavano regioni col nome delle antiche città, ora soppiantate da colonie di giovani piantatori che vivevano perlopiù di un’agricoltura grama“.
In questo cosmo riscritto daccapo i sopravvissuti fanno presto a recuperare leggi e superstizioni che sembravano superate ma che paiono riproporsi ciclicamente: “l’Onnipòssio ricostituì il mondo intorno alla città di Nominepàtri: controlli, la Difesa della Fede, la caccia alle strìe, la Disciplina, la Casa della Sapienza“. La ricostruzione di una civiltà, ancora una volta, seppure in un futuro solo immaginato, passa attraverso la sopraffazione e a farne le spese sono le ragazze e le bambine. La loro unica via di fuga è rappresentata da quello che tutti chiamano “lo Sciame”, un groviglio di ragazzine più o meno grandi, e sicuramente ribelli, scappate dalle violenze e dai soprusi delle loro stesse comunità: “la gente che le aveva incontrate diceva che cercavano la terra-senza-paura, oltre il mare“. È lì che vuole arrivare lo Sciame ma, anche nel mondo distopico inventato dalla Pariani, ci sono comunque uomini che non tollerano che delle “femmine” possano essere non controllabili.
La ricchezza di “Apriti, mare!” non è solo nel messaggio umano, ecologico, culturale che questa storia trasmette, ma anche nel talento che, ancora una volta, Laura Pariani dimostra nel saper costruire un linguaggio che non c’è. Era già accaduto altrove, per esempio ne “Il gioco di Santa Oca“: la narrazione è affidata a parole che sembrano arrivare da altre ere o da altre distanze. Le atmosfere sono intrise di motivi che provengono dalle fiabe classiche, infatti non è un caso che tra i “debiti” che la Pariani elenca al termine dell’opera troviamo capolavori senza tempo come Hänsel e Gretel, Raperonzolo, Il pifferaio di Hamelin dei Fratelli Grimm o Pollicino, Cappuccetto Rosso, Le Fate, Barbablù di Perrault o La piccola fiammiferaia, La Sirenetta, I vestiti dell’imperatore, I cigni selvatici, La regina della neve, Scarpette rosse di Andersen.
Edizione esaminata e brevi note
Laura Pariani è nata nel 1951 a Busto Arsizio. La sua opera d’esordio, “Di corno o d’oro”, è una raccolta di racconti e risale al 1993. In seguito ha pubblicato “Il pettine” e “La spada e la luna” per Sellerio oltre a “La perfezione degli elastici (e del cinema)”, “La signora dei porci”, “La foto di Orta”, “Quando Dio ballava il tango”, “L’uovo di Gertrudina” e “La straduzione” tutti per Rizzoli. Più recenti “Le montagne di Don Patagonia” edito da Interlinea, “Il piatto dell’angelo” (Giunti) e “Nostra signora degli scorpioni” con Nicola Fantini (Sellerio). Per Einaudi ha pubblicato “Dio non ama i bambini” (2007), “Milano è una selva oscura” (2010, finalista al Premio Campiello), “La valle delle donne lupo” (2011), “Questo viaggio chiamavamo amore” (2015), “«Domani è un altro giorno» disse Rossella O’Hara” (2017), “Di ferro e d’acciaio” (2018), “Il gioco di Santa Oca” (2019), “Arrivederci, signor Čajkovskij” (2019), “Apriti, mare!” (2021).
Laura Pariani, “Apriti, mare!“, La Nave di Teseo, Milano, 2021.
Pagine su Laura Pariani: Wikipedia / Sito ufficiale / Treccani
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