“Dei milioni che sono stati portati dall’Africa alle Americhe, è rimasto un uomo soltanto. Si chiama Cudjo Lewis e oggi vive a Plateau, in Alabama, un sobborgo di Mobile. Questa è la storia di Cudjo“. C’è molta schiettezza e voglia di verità in “Barracoon. L’ultimo schiavo”, c’è la ricerca antropologica e storica oltre alla volontà di rintracciare un’origine, anche se è la stessa Zora Neale Hurston a spiegare, nella sua prefazione, che la sua opera “Non aspira in alcun modo a essere un documento scientifico, ma nel complesso può dirsi accurata“. L’esperienza di studio che ha condotto la Hurston, sotto la guida di Franz Boas, noto come «il padre dell’antropologia americana», a registrare il racconto di Kossula, chiamato Cudjo dopo essere giunto negli Stati Uniti, è avvenuta nel 1927 quando la Hurston era ancora una “novellina” e la sua carriera di sociologa non era ancora nemmeno iniziata.
Questa prima, rilevante esperienza sul campo ebbe un impatto emotivo molto potente sulla studiosa. Come lei stessa scriverà più tardi nella sua autobiografia, “Dust Tracks on a Road“: “Una cosa mi colpì particolarmente durante i tre mesi accanto a Cudjo Lewis. […] In America i bianchi avevano tenuto la mia gente in schiavitù. Ci avevano comprati e sfruttati, è vero. Ma il fatto inoppugnabile che mi si impresse nel cervello era un altro: era stata la mia gente a vendermi ai bianchi. Quest’elemento spazzava via la convinzione con la quale ero cresciuta, e cioè che i bianchi erano andati in Africa, avevano attirato gli africani sulle loro navi con un fazzoletto rosso e se li erano portati via“. Infatti la vera e autentica presa di coscienza personale e, forse, anche scientifica, per Zora Neale Hurston sta nell’aver compreso, grazie ai suoi incontri con l’ex schiavo africano Kossula/Cudjo, che i neri d’Africa furono resi schiavi anche con la complicità della loro stessa gente.
Quando la Hurston incontra Cudjo, lui è già un uomo anziano ma la sua mente è riuscita a mantenere vivi moltissimi ricordi, anche quelli legati alla sua prima vita, quella di ragazzino cresciuto in “Afficky”, come lui chiama l’Africa. L’anziano è felice di raccontare la sua storia: “Devi dirlo a tutti, ovunque vai, quello che ti dice Cudjo, e come ho fatto a venire nella terra dell’Americky nel 1859 e che non ho più visto la mia famiglia. Io non so parlare bene, ma ti dirò tutto parola per parola così per te non è troppo complicato“. Zora Neale Hurston sembra aver riportato le parole dell’ex schiavo in totale “purezza” e la traduzione, la prima realizzata in italiano, sembra rispettarne pienamente l’autenticità. Così come doveva avvenire in Africa, Kossula inizia il suo racconto ricordando i suoi antenati ricorrendo, di tanto in tanto, a parole nella sua lingua madre e a richiami legati a leggende, tradizioni, rituali e canti del suo popolo d’origine.
La nave che portò via Kossula dalla sua “Afficky” si chiamava Clotilda. Fu l’ultima nave negriera sbarcata in America e Cudjo, nel 1927, rappresenta l’ultimo testimone in vita della “tratta atlantica”. Ciò basta a capire che l’uomo deve aver rappresentato un soggetto di studio estremamente interessante per Zora Neale Hurston. Kossula, al momento della sua cattura, aveva solo 19 anni. Come mette in luce la studiosa, Kossula venne fatto prigioniero dai guerrieri del Regno di Dahomey, l’attuale Benin, sul Golfo di Guinea. Per molti decenni i sovrani del Dahomey sono stati impegnati nel catturare persone nei territori vicini per venderle senza troppi problemi agli schiavisti europei e americani. Gli uomini e le donne catturati venivano ammassati nei “barracoon”, ossia prigioni dislocate lungo le coste africane, per poi essere trasferiti sulla nave che li avrebbe condotti, da schiavi, nei Paesi di destinazione.
Cudjo ha vissuto l’esperienza disumanizzante e dolorosa del passare dalla condizione di individuo libero a quella di prigioniero per poi diventare schiavo e, dopo qualche anno, tornare ad essere un uomo libero. La riconquista della libertà, per quanto agognata ed elettrizzante, è stata per Kossula e gli africani come lui anche molto difficile da gestire e capire. Il sogno di molti era il ritorno dal luogo di partenza, oltre l’oceano: “Abbiamo lavorato tanto e abbiamo cercato di mettere da parte i soldi. Però i soldi che ci servivano erano troppi. Così abbiamo deciso di restare qui“. Con semplicità Cudjo spiega le ragioni per cui i numerosi schiavi restarono “nella terra della ‘Merica” e, col tempo e un minimo di organizzazione riuscirono a fondare, nel 1866, la città di Africatown. “Africatown non è soltanto un luogo storico. È una prova dell’ingegno africano e un primo modello di acculturazione degli africani nel Sud degli Stati Uniti“.
Edizione esaminata e brevi note
Zora Neale Hurston è nata nel 1891 a Notasulga, in Alabama. Dopo aver lavorato come domestica, cameriera, manicure, riuscì a iscriversi solo in età adulta alle superiori, dichiarando dieci anni di meno. Giunta a New York, studiò antropologia con Franz Boas e partecipò da protagonista al fervore della Harlem Renaissance. Ha scritto quattro romanzi, tra cui “I loro occhi guardavano Dio” (1937), oltre a un’autobiografia e a una quantità di racconti, saggi etnografici, lavori teatrali. Dimenticata dopo la guerra, e sepolta in una fossa senza nome in Florida, è stata riscoperta da Toni Morrison e Alice Walker, che ne rintracciò la tomba e vi fece incidere l’epitaffio: «Zora Neale Hurston, un genio del Sud». Da allora la sua opera, ripubblicata dalla Library of America, è considerata una pietra miliare della letteratura afroamericana.
Zora Neale Hurston, “Barracoon. L’ultimo schiavo“, 66THAND2ND, Roma, 2019. Traduzione dall’inglese di Sara Antonelli. Traduzione della postfazione e degli apparati di Mauro Maraschi. Titolo originale: “Barracoon. The Story of the Last “Black Cargo” ” (2018).
Pagine su Zora Neale Hurston: Sito dedicato / Wikipedia / Enciclopedia delle Donne
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