«Fino ai dieci anni ho avuto il terrore dei cani. Tremavo alla vista anche di un chihuahua dopo che a cinque anni, mentre giocavo a calcio insieme a mio padre e ad amici, mi mandarono a recuperare il pallone nel giardino di una villa.» Così scrive Luca Giordano nella sua introduzione a Qui non crescono i fiori, romanzo fresco di (ri)stampa da Terrarossa Edizioni per la collana Fondanti, che (ri)propone ai suoi lettori opere che hanno segnato un’epoca o hanno rappresentato un tassello fondamentale nel percorso narrativo di autori di talento. Tenete conto di queste parole quando vi addentrerete nelle sue pagine: «[…] l’avevo iniziato a scrivere dopo aver letto un fatto di cronaca, perché mi dava la possibilità di raccontare la storia di come il rapporto con un animale potrebbe persino salvare una persona». Potreste essere il suo lettore ideale se pensate che gli uomini siano bestie e gli animali non sempre, se pensate che un fallimento personale – anche importante – possa tradursi in una seconda opportunità.
Partiamo dalla storia, nuda e cruda. Un’isola del profondo Sud d’Italia che non viene mai nominata. Potrebbe esser Lampedusa (si accenna al costante sbarco di migranti) ma questo non ha importanza. Un’afa soffocante, le scogliere roventi, a picco su un mare cristallino. Qua e là calette più o meno nascoste, più o meno inaccessibili che per i pochi abitanti costituiscono quasi una proprietà esclusiva ma che ribadiscono una volta di più il confine, la netta demarcazione tra quel piccolo mondo e l’Altrove. E cani randagi, diversi cani randagi che vagano come zombi in quel lembo di terra arida, potenzialmente pericolosi perché inselvatichiti e resi più aggressivi dalla fame. In quest’isola c’è Mario con la sua piccola autofficina, che gli dà a malapena di che vivere. Ci lavora gomito a gomito con il figlio maggiore, Damiano. Il figlio più piccolo di Mario, Salvatore, dà il suo contributo come può. C’è anche Pietro, amico e collega di Damiano, abile coi motori, intraprendente pure a manometterne qualcuno – se c’è un calo della domanda e si fa fatica a sbarcare il lunario. Tanto l’officina non ha competitor nell’isola. Dalle battute iniziali del romanzo, a guardarli ti paiono una famiglia come tante, Mario Damiano e Salvatore. Certo conducono una vita dura, fatta spesso di rinunce. Viene da chiedersi: perché non se ne vanno? Risposta non facile. È come se l’isola custodisse gelosamente i suoi figli; è restia a lasciarli andare sul continente ed è subdola anche con chi vi entra. Li ammalia, suadente come il canto di una sirena, e li imprigiona pur di impedire che se ne vadano via.
Nel quadretto che vi ho delineato iniziano a comparire delle smagliature. Mario è dedito al vino, per esempio. E ha degli spunti di autolesionismo. Burbero e scontroso con i figli, Mario non riesce a trovare con loro un adeguato canale di comunicazione. Sul versante fratelli non va meglio; saranno forse le piccole debolezze e le attenzioni che Mario riserva al più piccolo, ma Damiano sembra geloso nei confronti di Salvatore, che diviene vittima privilegiata dei lazzi e degli scherzi, talvolta veri e propri atti di bullismo, orditi ai suoi danni con il fido amico Pietro. Anzi, Damiano detesta francamente il fratello, arriva persino a pensare di odiarlo; anche se lo leggiamo non riusciamo a crederci veramente. O forse no? Leggere come si dipana la storia ci aiuterà a capire meglio le dinamiche di relazione tra i due fratelli. Aleggia, tra i personaggi di questo romanzo, una sorta di dolore rancoroso, un grumo irrisolto di aspettative, di inadeguatezza e di inappartenenza.
Un’altra domanda che il lettore si pone è: ma la madre di Damiano e Salvatore che fine ha fatto? Sul quesito cala l’ombra cupa di una cascina disabitata, ormai ridotta a un cumulo di macerie, divorata in un passato più o meno recente da un incendio. Molti nell’isola sanno ma non ne vogliono parlare e forse Salvatore, che vive l’inizio di una torrida estate in un mondo fatto di fumetti, di compiti delle vacanze e di spicciole commissioni per suo padre è quello che ne sa meno di tutti. Salvatore è l’anello debole della catena; il ragazzino è alla ricerca di un senso, di un suo personale equilibrio che trova solo marginalmente nel rapporto col padre e per niente col fratello maggiore. Esplora i termini di una possibile amicizia con un cane randagio, che cerca di addomesticare e tiene nascosto al mondo proprio nella cascina disabitata, dove il padre ha imposto ai suoi ragazzi un categorico divieto di mettervi piede – ma si sa che per un figlio in crescita non vi è niente di meglio e più attraente di una proibizione del genitore.
La scrittura di Giordano, che si è diplomato in sceneggiatura e scrive per il cinema e la televisione si concretizza in uno stile asciutto, direi quasi scabro nella rappresentazione mimetica della natura che fa da sfondo alle sue storie. Credo che il suo stile piacerebbe a Cormac McCarthy. Qui non crescono i fiori evidenzia anche un abile montaggio delle scene. Ai fatti del tempo della storia si alternano brevi flashback, marcati anche formalmente in carattere corsivo. Sono altrettanto belle e ben riuscite alcune pagine molto sensoriali, in cui vengono evocate in soggettiva le sensazioni e reazioni del cane Tonno – così Salvatore ha chiamato il suo nuovo amico a quattro zampe. Quando abbiamo iniziato a farci il callo sulla rudezza e brutalità di Mario sprofondiamo in brevi inserti – come delle visioni – di quando era un ragazzo sentimentale, del suo incontro con Alice, la futura madre di Damiano e Salvatore, della nascita del loro amore, del disagio psicologico e fisico nel suo viaggio fuori dall’isola, come un pesce fuor d’acqua. Fai bene, dice a Pietro, che coltiva il proposito di lasciare l’isola e raggiungere alcuni parenti in Germania. Magari prima o poi ti raggiungiamo anche noi. Ma la risposta di Pietro è pronta: Voi non uscirete mai da qui. L’isola stritola, l’isola è una sorta di anatema e l’intreccio del romanzo ne scandisce il ritmo – pacato e disteso, quasi noncurante nella prima parte che delinea il quadro famigliare, più incalzante in seguito man mano che il termometro della tensione drammatica sale – e l’ineluttabile epilogo per una storia che ha il sapore di quelle nere storie della provincia più remota, che non avremmo pensato di incrociare ancora nell’odierno villaggio globale. Qui non crescono i fiori è insomma un romanzo “per immagini” di dolorosa bellezza che, non sia mai, ci piacerebbe riassaporare anche al cinema.
Edizione esaminata e brevi note
Luca Giordano (Moncalieri, 1985) si è diplomato in sceneggiatura al Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma. Scrive per il cinema e la televisione. Questo è il suo primo romanzo ed era stato pubblicato nel 2013 per ISBN Edizioni.
Luca Giordano, “Qui non crescono i fiori”, Terrarossa Edizioni, Collana Fondanti, 2021, pagg. 216.
Alberto Carollo per Lankenauta, 15 aprile 2021.
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