Thomas Keneally ha scritto “Il canto di Jimmie Blacksmith” nel 1972 ed è stato tra i finalisti del Booker Prize. Pochi anni più tardi, era il 1978, Fred Schepisi ha tratto dal libro l’omonimo film. L’edizione italiana è arrivata solo nel 2020 per Vice Versa Publishing. Questo romanzo ha quasi cinquant’anni ma, onestamente, potrebbe essere stato scritto oggi. La sua contemporaneità, a mio avviso, sta nel consentire a chi legge di avvicinarsi alla psiche e alla sofferenza dei sottomessi, meglio: degli ingiustificatamente sottomessi. E, più di tutto, riesce a tracciare il percorso emotivo e mentale che conduce all’esplosione inaspettata della furia omicida dei vinti, affrontando il tutto senza fornire alibi ma ripristinando un bilanciamento delle colpe.
Keneally è un bianco australiano e da bianco australiano, circa cinquant’anni fa, ha avuto il coraggio di entrare nel cuore di un’efferata vicenda realmente accaduta nel 1900: un aborigeno di nome Jimmy Governor uccise nove bianchi e per tre mesi rimase nascosto nella foresta terrorizzando un’intera regione. Sullo sfondo c’è un’Australia che sta cercando la propria identità, impegnata nell’impresa di rendersi autonoma rispetto all’Inghilterra e che, durante le imponenti cerimonie per la nascita della Federazione, sembra voler lasciare deliberatamente nell’oblio le vicissitudini tutte umane dei nativi e dei deportati. Pagine di storia che, dal canto suo, Thomas Keneally ha voluto riesumare e ricondurre alla luce attraverso “Il canto di Jimmie Blacksmith” in uno stile che porta in sé qualcosa di ancestrale, di abbozzato, di incompiuto. Non ci sono raffinatezze stilistiche, qui, in un’asprezza linguistica che frammenta e un po’ disorienta.
La vita di Jimmie Blacksmith somiglia a quelle di tanti aborigeni sacrificati e soggiogati dall’uomo occidentale. Le radici della moderna Australia sprofondano anche nelle ferite e nelle sofferenze dei nativi che, qui come altrove, patiscono le conseguenze vigliacche e indegne dei colonizzatori europei. Il bianco comanda, l’aborigeno no. E Jimmie Blacksmith, pure mezzosangue, non fa eccezione. È metodista, sa leggere e scrivere, sposa una donna bianca che, forse, nessun bianco avrebbe sposato. Nutre qualche ambizione ma si capisce in fretta che un nativo non può permetterselo. Subisce ogni vessazione e ogni ingiustizia che l’uomo bianco e la donna bianca gli impongono. Fino all’esplosione: “Jimmie non avrebbe aspettato fino al mattino per sapere se, alla luce di tutte le crudeltà che aveva subito da Healy, Lewis, Farrell, Newby, e il cuoco dei tosatori di pecore, aveva la licenza di impazzire“.
Nella mente del nativo si insinua una sorta di smania d’onnipotenza che l’autore descrive: “Jimmie lasciò entrare nel suo corpo una maestà di giudizio inebriante, la sensazione che erano le stelle appuntite nel cielo a spingerlo. Si sentiva gonfio di una febbre regale, si sentiva rinascere“. Delirio? Follia? Esasperazione? L’epilogo non cambia: Jimmie inizia a uccidere. “Mentre colpiva e continuava a colpire, Jimmie apprese la facilità dell’uccidere. Le persone erroneamente lo vedevano come un atto estremo, terrificante“. E vuole uccidere le donne per punire i loro uomini. L’atto violento, compiuto con l’ascia, conduce il nativo dove, forse non avrebbe mai pensato, verso un confine di consapevolezza e di inaspettata coscienza che l’autore sa ben descrivere: “Seppe in un istante che doveva vedere nelle sue azioni le fervide illusioni su cui erano state basate. Perciò scelse di sapere e di non diventare pazzo“.
Entrare nella mente di Jimmie, che da nativo succube si tramuta in esecutore di morte, è sicuramente affascinante dal punto di vista narrativo e psicologico. Jimmie è perfettamente consapevole della follia omicida che lo attanaglia, le donne che uccide sono “le prime necessarie vittime di una guerra regalmente intrapresa“. Regale quindi imponente e legittima: niente a che vedere con la sottomissione o l’umiltà o la miseria che fino a quel momento ha dovuto patire. Ovviamente le uccisioni di Jimmie sono intrise di vendetta, quel meccanismo archetipo che riduce l’uomo fuori dalla sua stessa civiltà. Non c’è redenzione, questo è chiaro. C’è una fuga durata a lungo e la parallela frustrazione dell’uomo bianco incapace di fermare o di trovare un aborigeno che sa uccidere e fuggire.
Edizione esaminata e brevi note
Thomas Keneally è “un’istituzione” in Australia, dove vi si trova il Tom Keneally Centre, importante trampolino di lancio per la letteratura; dove il nome dell’autore appare nella lista del National Living Treasures; dove una copia autografata del suo libro “Lincoln” (2003) è stata ufficialmente donata, dal Primo Ministro australiano Kevin Rudd, a Barack Obama; e dove gli è stato conferito il titolo di Officer of the Order of Australia dalla Regina Elisabetta II. La fama internazionale del prolifico autore è accresciuta grazie al suo libro “Schindler’s Ark” (1982), vincitore del Booker Prize, da cui venne tratto il film “La lista di Schindler” di Steven Spielberg. Tre delle sue opere sono arrivate finaliste al Booker Prize, tra cui il discusso romanzo “The Chant of Jimmie Blacksmith” (1972), e due hanno vinto il Miles Franklin Award. Thomas Keneally è cresciuto a Sydney e Kempsey in una famiglia cattolica, e prima di diventare un grande autore di fama internazionale, ha studiato in seminario, ma senza completare gli studi, e in seguito ha intrapreso la carriera di insegnante e lettore universitario in Australia e Stati Uniti. È inoltre apparso in alcuni film, inclusa la versione cinematografica de “The Chant of Jimmie Blacksmith”. Ha fondato il Movimento Repubblicano Australiano, e attualmente è ambasciatore dell’Asylum Seekers Centre australiano, oltre a essere un grande sostenitore del Manly Rugby League Club. In Australia lo hanno descritto come “ciò che abbiamo di più simile a un Balzac della nostra letteratura”.
Thomas Keneally, “Il canto di Jimmie Blacksmith“, Vice Versa Publishing, Londra, 2020. Traduzione di Valentina Rossini. Titolo originale: “The Chant of Jimmie Blacksmith” (2013).
Pagine Internet su Thomas Keneally: Wikipedia / Enciclopedia Britannica / The Guardian
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