Tanto vale scriverlo fin da subito: “La morte di Vivek” è uno splendido romanzo. Probabilmente uno dei migliori che ho letto negli ultimi mesi. Scritto in maniera egregia con una delicatezza che sfiora il lirismo ma anche con la dolorosa consapevolezza di addentrarsi al centro di una società ancora incapace di vedere e di accogliere, di (ri)conoscere e capire. Akwaeke Emezi si pone, a mio avviso, come una delle scrittrici più interessanti degli ultimi tempi e, anche per questo, mi sono già ripromessa di leggere “Acquadolce”, l’altro suo romanzo pubblicato in Italia, sempre da Il Saggiatore, nel 2019. La sua scrittura sa essere lieve ma anche viscerale, magnetica e spirituale. Vivek, la storia della sua famiglia e la ricerca della verità sulla sua morte sono l’emblema della incomunicabilità, dell’inadeguatezza, della scelta di non vedere.
Vivek è morto, questo è chiaro fin dal titolo. Sua madre Kavita ritrova il suo corpo abbandonato davanti alla porta di casa. Lo stesso giorno, nel mercato cittadino, ci sono stati disordini e un vasto incendio. Il corpo di Vivek è nudo e i suoi lunghi capelli sono intrisi di sangue: “sotto quattro metri di stoffa in akwete dal motivo rosso e nero che a suo dire non avrebbe mai dimenticato, il cranio dietro era rotto e stillava sullo zerbino. Kavita ne sollevò comunque il collo, per premere la guancia contro la sua e urlare. I capelli di Vivek le caddero sulle braccia, bagnati e lunghi e spessi, e lei pianse“. Vivek è morto e nessuno sembra sapere cosa sia successo né chi lo abbia riportato a casa senza vita. Il mistero che circonda la morte del giovane Vivek si infiltra in ogni pagina e chi legge, proprio come accade in un classico libro giallo, tenta di comprenderlo e svelarlo prima della fine. Vivek è figlio di Chika, nigeriano, e di Kavita, indiana.
Vivek nasce con una cicatrice sul piede, la stessa “stella marina sgonfia rovesciata” che aveva anche la sua nonna nigeriana Ahunna. Lei era morta mentre Vivek veniva al mondo: una coincidenza che Chika preferisce ignorare per non sentire il peso delle superstizioni e delle antiche e lugubri leggende del villaggio da cui proviene. “Lo portarono in una casa riempita di sofferenza invalidante; la sua vita intera fu un cordoglio. Kavita non ebbe mai altri figli. «Basta lui» diceva. «Basta cos컓. Vivek cresce e a raccontarcelo è, in prima persona, anche suo cugino Osita. Le voci, in questo romanzo, si dilatano e si assottigliano: parla l’autore ma parlano anche i suoi personaggi attraverso sequenze che rimandano nei tempi e negli spazi, con eleganza, costanza e perfetta armonia.
I capelli lunghi di Vivek, il suo corpo ossuto, i suoi occhi immensi parlano a molti ma non ai suoi genitori. Attorno al ragazzo c’è una corolla di amiche che sanno, che proteggono, che camuffano, che tacciono. Juju, Elizabeth, Olunne, Somto: le ragazze capiscono Vivek senza giudicarlo, lo accolgono nelle loro stanze e condividono con lui un’adolescenza che, invece, Chika e Kavita non sono in grado di afferrare. Sono preoccupati per quel loro figlio così strano, così silente, così distante ma preferiscono non scavare e non andare oltre. C’è anche Vivek in tutto questo e di sé dice: “Non sono ciò che tutti pensano che sia. Non è mai stato così. Non avevo la bocca per tradurlo in parole, per dire ciò che non andava, per cambiare le cose che sentivo di dover cambiare. E ogni giorno era difficile, andare in giro e sapere che le persone mi vedevano in un modo, sapere che si sbagliavano, si sbagliavano in tutto e per tutto, che per loro il mio vero io era invisibile. Per loro non esisteva neanche. Quindi: se nessuno ti vede, tu ci sei ancora?“.
Vivek, forse, sentiva di non vivere prima ancora di essere morto. La sua morte è un’epifania per molti, è lo squarcio sanguinante che frantuma le coscienze e l’invisibilità. Kavita vuole sapere a ogni costo cosa sia accaduto a suo figlio, la sua ricerca della verità è ossessiva ed estenuante. Non si ferma davanti a nulla e a nessuno, non può farlo. Non c’era il demonio dentro Vivek, come pretendevano i genitori di Osita, c’era solo un ragazzo che chiedeva di essere riconosciuto, amato e rispettato. “La morte di Vivek” è anche un aspro atto di denuncia contro un sistema sociale, politico e religioso, quello nigeriano, che considera l’omosessualità un crimine punibile anche con la pena di morte.
Edizione esaminata e brevi note
Akwaeke Emezi (Umuahia, 1987) nasce in Nigeria da padre nigeriano e madre indiana tamil. Emezi inizia a scrivere racconti quando aveva cinque anni, studia presso la New York University. Il suo romanzo d’esordio “Acquadolce”, pubblicato dal Saggiatore nel 2019, è stato finalista al PEN/Hemingway Award e al Women’s Prize for Fiction. “La morte di Vivek”, pubblicato nel 2021, è stato nominato dal New York Times fra i cento migliori libri del 2020.
Akwaeke Emezi, “La morte di Vivek“, Il Saggiatore, Milano, 2021. Traduzione di Benedetta Dazzi. Titolo originale: “The Death of Vivek Oji” (2020).
Pagine Internet su Akwaeke Emezi: Sito ufficiale / Twitter / Wikipedia (en)
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