Lombezzi Giulia

La sostanza instabile

Ci sono eventi che restano traumaticamente infissi nella memoria collettiva per sempre, perché necessitano di elaborazioni talmente lunghe, che non basta l’arco di un’intera esistenza per poterli finalmente considerare smaltiti: tanto che vengono riportati a figli e nipoti con la stessa cocente impellenza che ne ha determinato il trauma; si continua ad associarli con naturale freschezza, come se si fossero verificati un istante prima, all’esatta azione che si stava compiendo allora, quando ci sono piombati addosso, anche solo cronachisticamente. È il caso, per esempio, dei grandi attentati o dei cataclismi naturali, ma anche delle conseguenze della negligenza umana ‒ tanto per attingere al presente: del crollo della funivia del Mottarone ‒ per l’insensatezza dei lutti che portano con sé e, nel fatto appena menzionato, anche per il triste squallore di scia giudiziaria che si lasciano dietro. Poi, ci sono eventi che la collettività dimentica, perché presto trascurati dalle pagine di cronaca nera dei quotidiani ma che, pur non riguardandoli direttamente, vengono ricordati da alcuni individui in quanto, per una benevola fatalità (uno scarto di giorni, di ore o, addirittura, di minuti o secondi), avrebbero potuto coinvolgerli catastroficamente, ma non l’hanno fatto (nel caso di chi scrive, per esempio, è la tragedia della Solfatara di Pozzuoli).

La sostanza instabile rientra, forse, in questa seconda categoria. O magari, no. La contestualizzazione spazio-temporale non ha poi tutta questa rilevanza, se non descrittivamente e, come vedremo, strategicamente: l’Arco della Pace di Piazza Sempione a Milano, in un mese di luglio di un anno imprecisato, rimanda quasi certamente ad altro. Viene il dubbio che non solo la piazza, flagellata da una deflagrazione, ma l’intera città non sia quella giusta dove è stato collocato il maxischermo della finale degli Europei di calcio. Eppure…

Eppure questo dubbio permane fino all’ultima pagina del libro, con la stessa fissità logorante dell’evento traumatico che accompagna (e accompagnerà) le esistenze ivi racchiuse.

Come possa accadere che un fatto minuziosamente descritto e, apparentemente, comprovato da dati certi (referti clinici, coordinate planimetriche, esposizioni narrative dettagliate etc.) sia, in realtà, stato inventato di sana pianta oppure traslato da un altrove sospettamente somigliante ‒ nella fattispecie, verrebbe da pensare alla tragedia di Piazza San Carlo a Torino, di qualche estate fa ‒ è presto detto: una invidiabile maestria descrittiva supportata da una conoscenza (o da una documentazione) ambientale che, seppur proveniente da un’autrice milanese, non deve essere data per scontata.

Il «condominio di Bovisio Masciago», gli «amici di Pessano», l’auto lasciata «a Sesto Marelli»; gli «stranieri di Milano» che si portano da mangiare «al Parco Ravizza» oppure si trovano a pregare «alla chiesa evangelica metodista in Isola»; «il Beccaria» o «il Manzoni» (intesi come scuole) e «l’Istituto Carlo Tenca»; i «comignoli dell’Ortica»; il passante ferroviario di «Milano Cadorna»; la «chiesa di Sant’Eustorgio»; «via Monti, via Carducci, Sant’Ambrogio»; la scultura «Ago, Filo e Nodo» di «piazzale Cadorna»; il «Parco Baden-Powell», e innumerevoli altre connotazioni topografiche, fanno di questo romanzo una mastodontica impresa atta a congiurare contro il lettore, affinché questi si convinca con tutto se stesso che l’evento (o il presunto evento, giacché risulterà ben presto essere qualcosa di molto differente rispetto a quanto paventato all’inizio) si sia effettivamente verificato e che la stessa autrice vi abbia, in qualche misura, preso parte. Peraltro, così come risulta quasi naturale accostare il titolo, di ascendenza tecnicamente chimica, al metaforico Sistema periodico di Primo Levi, non ci si può sottrarre a un altro illustre accostamento letterario, relazionandoci appunto alla credibilità dell’accadimento in funzione della consistenza numerica e rappresentativa della geografia lombarda: era il novatese Giovanni Testori che tratteneva a terra il lettore ‒ già perso nei suoi funambolismi espressivi fatti di latino, francese e, appunto, meneghino ‒ riconducendolo alla concretezza urbanistica, tramite cataloghi infiniti di città, strade e ambienti della sua Lombardia. Perché la concretezza urbanistica, è evidente, re-immette nella tangibilità della sostanza (anche quella instabile, che sfugge): e ciò è tanto più vero, in quanto l’abilità descrittiva travalica il genere letterario.

Date queste premesse, lasciamo alle loro «fughe incrociate» ‒ come direbbe un altro narratore del Novecento[1] ‒ i Marco, le Matilde, le Serena, i Damiano, le Caterina, le Valentina, gli Olmo, le Betty, i Riccardo etc. (i cui articoli determinativi, tanto milanesi e così vituperati da Nanni Moretti, Testori si sarebbe spinto a inglobare dentro gli stessi nomi, per crasi). Limitiamoci solo a puntualizzare quanto una situazione di estremo pericolo ‒ qui incarnato da una folla terrorizzata e calpestante ‒ sia in grado di far scaturire dall’individuo un parossismo reattivo egoistico o altruistico, a seconda del caso; per addentrarci, subito dopo, sulla questione stilistica di un romanzo che, almeno in apparenza, rientra nel genere «corale» ‒ confermato dall’assegnazione esplicita del punto di vista, in cima a ogni capitolo ‒ benché mantenga sempre la terza persona narrante (non in soggettiva, quindi). E citiamo qualche guizzo aforistico, giusto per valorizzare la bellezza di questo libro, che è arrivato finalista al Premio Calvino nel 2020, ma che avrebbe potuto vincere lo Strega di quest’anno, se non scendessero in lizza sempre gli stessi nomi:

«È la parola che dà forma ai fatti. Finché la parola non lo ratifica, un fatto non esiste. Se un omicidio è irrisolto, il colpevole resta una brava persona» (p. 97)

«È qualcuno che ti odia e ti tortura e che non puoi staccare da te, è un cazzo di gemello siamese il dolore» (p. 107)

«La città per lei è un corpo senza pelle, una rete di nervature esposte a qualsiasi strategia» (p. 143).

All’eleganza formale fa sempre da corrispettivo la fondatezza espositiva, in un inesauribile binomio che si riscontra di rado nella letteratura contemporanea, troppo spesso carente in fatto di metafore. Qui, invece, i richiami metaforici sono continui, efficaci, ancorati alla materia e al presente e, in qualche passo, perfino cinematograficamente giustificati:

«La livellina, le aveva spiegato Damiano, è una malta monocomponente a rapido indurimento costituita da cementi, cariche minerali, copolimeri e additivi. Serve a coprire un pavimento rovinato e renderlo nuovo. Quel che rimane sotto, graffi, frammenti di materiale genetico, accidentali memorie d’inciampi altrui, viene completamente ricoperto» (p. 100)

«Marco ha in mano una pesca. Ne sente la consistenza setosa, immagina un piccolo cranio rasato. La stringe così forte che a un certo punto il sugo giallo gli cola giù per il braccio. Frammenti di polpa iniziano a piovergli sulle gambe»[2] (p. 131)

«Non parla dei denti di mamma che affondano in una schiena. Della puzza della paura altrui, della sensazione di essere divorato. Non parla di camminare sui biscotti»[3] (p. 149)

«… ero un animale in fuga, ero orbo, non ero io. O forse ero proprio io. Tu, Caterina, tu eri l’ultimo dei miei pensieri»[4] (p. 170).

A un certo punto, fa capolino addirittura un enjambement concettuale, figura retorica ormai infrequente perfino in poesia:

«Elenca una lista di santi che dovrebbero pregare per Matilde e facilitarle l’accesso al regno dei cieli.

Le porte sono socchiuse, Marco ha lasciato entrare tutti…» (p. 205).

Per concludere, se è vero che una «sostanza è stabile se ha legami stretti. Se si trova in equilibrio chimico con l’ambiente che la circonda» (p. 116), La sostanza instabile di Giulia Lombezzi è uno dei romanzi più elegantemente equilibrati usciti nell’ultimo ventennio.

[1] Fulvio Tomizza, Fughe incrociate, Milano, Bompiani, 1990.

[2] Cfr. Chiamami col tuo nome (2017), di Luca Guadagnino.

[3] Cfr. Indiana Jones e il tempio maledetto (1984), di Steven Spielberg.

[4] Cfr. Forza maggiore (2014), di Ruben Östlund.

Edizione esaminata e brevi note

Giulia Lombezzi, autrice e regista teatrale, è nata a Milano nel 1987. Dopo aver vinto svariati premi per suoi racconti, è arrivata finalista all’edizione 2020 del Premio Calvino con La sostanza instabile, suo primo romanzo, pubblicato da Giulio Perrone Editore nel 2021.

Giulia Lombezzi, La sostanza instabile, Roma, Giulio Perrone Editore, 2021, € 18