Interessante e curiosa pubblicazione, questa de Le novelle del defunto Ivan Petrovič Belkin di Aleksandr Puškin, da parte delle edizioni romane Kogoi, non solo per la riproposizione di un classico della letteratura (obiettivo della collana Talismani in cui è inserito), ma per gli omaggi dichiarati a due giovani intellettuali torinesi vittime del fascismo e del nazismo nella prima metà del secolo scorso: Piero Gobetti (1901-1926) e Leone Ginzburg (1909-1944). L’apparato critico che introduce i racconti è infatti costituito da: una prefazione del curatore di collana Dario Pontuale che traccia le coordinate biografiche, intellettuali, di Ginzburg; un breve scritto di Piero Gobetti su Puškin tratto da un articolo più ampio uscito in rivista, «Il Baretti», nel 1926; un articolo di Leone Ginzburg sulla traduzione pubblicato su «Pégaso» nel febbraio del 1932. Considerato che il testo di Gobetti prende in esame soprattutto l’opera poetica dell’autore russo, citando La figlia del capitano solo sul finale e trascurando del tutto le novelle di questo volume, sarebbe stata auspicabile, pur con il rischio di oberarlo di materiale extra-narrativo, anche una breve introduzione pertinente ai racconti. Le novelle del defunto Ivan Petrovič Belkin, scritte nel 1830 durante il primo dei soggiorni a Boldino e pubblicate l’anno seguente, sono la prima opera compiuta di narrativa dell’autore russo, visto che il romanzo Il negro di Pietro il Grande che ripercorre le vicende del bisnonno, schiavo-bambino africano adottato dallo zar e diventato generale d’armata russo, cominciato anni prima, rimase incompiuto. La permanenza a Boldino, che negli anni seguenti sarebbe stata replicata con piacere, in quel periodo fu allungata fino a tre mesi, a causa di un’epidemia di colera presente in alcune regioni russe, circostanza, questa dell’epidemia, che porta alla mente il Boccaccio col suo Decamerone. Come cornice di queste novelle Puškin usa l’espediente di farsi editore (nella prima edizione anonimo, con le sole iniziali A. P.) che, avendo ricevuto questi scritti e volendoli pubblicare, chiama un amico dell’autore a farne una breve biografia. Questo prologo narrativo ci porta subito nel mondo che andremo a conoscere: il mondo rurale russo, di ricchi possidenti, sperperoni o meno, di militari e ex-militari, di contadini, e così via. Scrive Remo Faccani nell’introduzione a La figlia del capitano e altri racconti (raccolta che comprende queste novelle, uscita per L’Espresso nel 2013):
“Uno degli elementi di spiccata novità che le Novelle ci offrono, secondo gli storici della letteratura russa, è la presenza di “eroi” d’estrazione sociale non elevata e spesso modesta. Io credo valga la pena di segnalare quanto meno le due protagoniste adolescenti della Contadina padrona e del Mastro di posta: Liza e Dunja. Riguardo alla prima, può sorprendere fra l’altro l’insistenza del narratore sull’incarnato bruno e sugli occhi neri della finta contadinella – tratti non “tipicamente russi” che erano anche di Puškin. (…) In quanto a Dunja, è un’incantevole “ninfetta” piena di garbo e seduzione, che Vladimir Nabokov, nella sua incontenibile ammirazione per Puškin, ebbe sicuramente cara.”
Leggiamo allora da Il maestro delle Poste alcuni brani relativi a Dunja:
“A queste parole di là dal tramezzo venne fuori una fanciulla di un quattordici anni e corse nell’anticamera. La sua bellezza mi colpì. […] La piccola civetta dal secondo sguardo aveva notato la impressione suscitata da lei su di me: abbassò i suoi grandi occhi azzurri; io cominciai a discorrere con lei; ella mi rispondeva senza nessuna timidezza, come una fanciulla che avesse veduto il mondo. […] Nell’anticamera mi fermai e le chiesi il permesso di baciarla; Dunja acconsentì… Molti baci posso enumerare da che mi occupo di questo ma neppure uno m’ha lasciato un ricordo così lungo, così piacevole.” (pag. 83-85)
Novelle che hanno dunque segnato una svolta nella narrativa russa, le cui influenze arrivano fino al pieno Novecento, e pensare che “Tornato a Mosca all’inizio di dicembre, Puškin legge subito le Novelle ad un altro amico, il poeta Evgenij Baratynskij, ed è felice di vederlo “sganasciarsi e sussultare dalle risa” (ancora dall’introduzione di R. Faccani).
Altro elemento distintivo della raccolta è l’utilizzo di vicende narrate per interposta persona: fin dall’avvertenza sappiamo che i racconti sono arrivati all’editore e che Belkin li aveva solamente raccolti – tanto da averne scritto, sotto ognuno, il grado o titolo e le iniziali di nome e cognome della persona che gliel’aveva riferito -, e anche all’interno delle stesse storie molte delle vicende vengono raccontate al narratore da altre persone, in una sorta di matrioska di storie in cui la voce narrante si perde.
Passando agli altri omaggi di cui questo volume reca traccia, quelli a Piero Gobetti e Leone Ginzburg, va detto che sono molto interessanti. Anche se il primo è limitato ad un solo testo esemplifica bene l’ampiezza di sguardo del giovane torinese, mentre il secondo, più ampio, è capace di restituirci a tutto tondo la figura dell’intellettuale nato a Odessa e che divenne personaggio importante della cultura italiana della prima metà del Novecento. In questo, se l’introduzione di Pontuale è necessaria a preparare il lettore, tanto più fanno le parole di Ginzburg sulla traduzione (e non solo) e vederne in qualche modo l’applicazione per i racconti di Puškin.
L’articolo, dal titolo Ancora sul tradurre, è la replica a quello di un altro traduttore, Ettore Fabietti, che lamenta ad esempio come le pagine culturali italiane non abbiano una “cronaca fissa regolare dei libri nuovi… come fa posto alla cronaca sportiva, teatrale, giudiziaria, mondana, e via dicendo, si limita a riferire saltuariamente su alcuni libri, che non sono sempre i migliori, né i destinati a larga diffusione” cui lui risponde citando la terza pagina come tribuna d’autorità maggiore rispetto a ciò che si trovava in Francia e Germania, “né sembra giusto voler estendere ai critici letterari una corvée già tanto, e a ragione, deprecata dai nostri critici drammatici, che il rapido avvicendarsi delle compagnie e l’obbligo d’interessare un pubblico distratto condanna a render conto affrettatamente d’ogni commediola che si rappresenti.” (pag. 22) C’era chi aveva fretta, chi inseguiva il pubblico, e chi quel pubblico lo voleva formare. Sarebbe da riportare tutto, per l’analisi della situazione editoriale italiana del tempo, dello stato della traduzione, per la capacità di mostrare e sintetizzare le varie questioni con rapidi e precisi esempi. Puntando però verso quelli che gli sembrano errori altrui non evita lo sguardo su di sé, sul suo stesso lavoro “Chi di noi non ha sulla coscienza frasi anche peggiori di quelle poste in ridicolo dal Fabietti, e che ci sembravano lecite solo perché le usavamo a scuola traducendo dal latino o dal greco? I professori, salvo troppe rare eccezioni… ci incoraggiavano con l’esempio. Così si dev’essere creata in molti la convinzione che tradurre voglia dire mettere in fila parole malamente accozzate, triviali o libresche o cervellotiche, e che son tutte ugualmente «giuste» perché tutte «c’erano nel vocabolario». […] Ha preso certo abbagli… come ne avrò presi io, malgrado la coscienziosità con cui attendevamo al nostro lavoro.” (pag. 24). Qui c’è da ricordare che chi scrive ha, nel 1932 quando esce l’articolo, 23 anni, e 3 anni prima aveva tradotto Anna Karenina, mentre poco dopo avrebbe rifiutato di prestare giuramento fascista perdendo così la cattedra di letteratura russa all’università di Torino. Finirà poi in prigione, ne uscirà, ci tornerà e morirà a Regina Coeli, nel febbraio del 1944. Nell’ultima lettera alla moglie Natalia scrive:
“Una delle cose che più mi addolora è la facilità con cui le persone intorno a me (e qualche volta io stesso) perdono il gusto dei problemi generali dinanzi al pericolo personale. Cercherò di conseguenza di non parlarti di me, ma di te. La mia aspirazione è che tu normalizzi, appena ti sia possibile, la tua esistenza; che tu lavori e scriva e sia utile agli altri. Questi consigli ti parranno facili e irritanti; invece sono il miglior frutto della mia tenerezza e del mio senso di responsabilità.” (pag. 11)
Edizione esaminata e brevi note
Aleksandr Sergeevič Puškin (Mosca, 1799 – Pietroburgo, 1837), poeta, saggista, drammaturgo, scrittore russo. Da ricordare almeno il romanzo in versi Evgenij Onegin, il dramma Boris Godunov, le opere narrative La figlia del capitano e Le novelle del defunto Ivan Petrovič Belkin.
Piero Gobetti (Torino, 1901 – Neuilly-sur-Seine, 1926), giornalista, politico, antifascista italiano. Fondatore di riviste, si oppose al nascente movimento fascista.
Leone Ginzburg, (Odessa, 1909 – Roma, 1944), letterato, scrittore, traduttore, giornalista, insegnante italiano. Animatore della cultura letteraria italiana, collaboratore stretto di Einaudi nella neonata casa editrice, venne imprigionato più volte fino a che non morì sotto custodia nazista nel carcere di Regina Coeli.
Dario Pontuale (Roma, 1978) è scrittore, saggista e studioso di letteratura otto-novecentesca.
Aleksandr Sergeevič Puškin, Le novelle del defunto Ivan Petrovič Belkin, traduzione di Leone Ginzburg, Prefazione di Dario Pontuale, con un saggio di Piero Gobetti, Edizioni Kogoi, Roma, 2016
Un ricordo di Norberto Bobbio su Leone Ginzburg sul sito Einaudi.
ab, aprile 2016
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