“Prima si diceva ciò che era; e tutto ciò che era veniva detto. Per primo Zohak mentì sul mondo, per conformarlo alla sua volontà […] in seguito, ciò che veniva detto senza essere diventava più reale di ciò che era senza venir detto“, p. 15.
Zohak (o Zahhak o Azhi Dahaka) nella mitologia iranica, tramandata dai testi dell’Avesta e nella letteratura zoroastriana, è l’archetipo del maligno; è il demone simbolo del dominio Assiro-Babilonese sui Persiani. Nella monumentale sistemazione del patrimonio narrativo iranico data dallo Shahnameh (Il libro dei Re) di Ferdowsi attorno all’anno 1000 d.C., Zohak è il principe arabo usurpatore e patricida.Egli diventa, nella mitologia e nel folklore persiano, il simbolo della conquista Araba della regione ed emblema della tirannia. Dalle sue spalle spuntano due serpenti affamati di umane cervella e pertanto ogni giorno le sue spie devono catturare due giovani da sacrificare alla voracità dei rettili. Per porre almeno parziale rimedio al quotidiano stillicidio di giovani persiani, i cuochi del tiranno Armail e Ghirmail, riescono a saziare gli incalzanti serpenti, tiranni del tiranno, mescolando cervella di montone a quelle umane. Ogni giorno uno dei due giovani catturati viene salvato e segretamente fatto fuggire in montagna…Leggenda vuole che da quei giovani doveva nascere un giorno il popolo dei curdi, esperti navigatori di quelle montagne ai più sconosciute.
Kawa, umile fabbro, ha già perduto sedici dei suoi diciassette figli in sacrificio al tiranno Zohak, soffocando il suo dolore nel silenzio della sottomissione al re. Quando anche Karen, l’ultimo dei suoi figli rimasto ancora in vita, viene catturato e portato nelle segrete del tiranno Zohak, Kawa sente nascergli dentro una forza più grande di lui. Innalza su un’asta il suo unto grembiule di fabbro (che poi diventerà simbolo della casata reale dei Sassanidi e della resistenza contro la dominazione straniera) facendone vessillo della rivolta popolare che rovescerà Zohak, inchiodandolo a una rupe del vulcano dormiente Damavand.
Fin qui la leggenda, raccontata in splendidi versi da Ferdowsi nell’XI secolo, e poi pellegrina per secoli sulle labbra dei cantastorie e perciò mille volte riadattata, travisata, modificata, ma mai deprivata del suo nucleo narrativo principale: quello della rivolta di un umile fabbro proletario contro il tiranno invasore.
Oggi la leggenda di Kawa è uno dei principali miti fondativi del moderno nazionalismo curdo. I curdi, popolo che nel corso della sua storia, antica e recente, ha spesso conosciuto il giogo della tirannia ed il fuoco della rivolta, si riconoscono allo specchio narrativo di questa leggenda che racconta delle loro origini, così come del loro presente. Gli intellettuali che ai primi del Novecento misero mano alla costruzione contemporanea di una storia nazionale curda, riconobbero in Kawa un mito fondativo, associato alla celebrazione del capodanno iranico all’equinozio di primavera, il 21 marzo. Il Newroz (letteralmente nuovo giorno). Intellettuali e attivisti curdi, in Turchia e in Iraq, a partire dagli anni ’60 fecero del fuoco del Newroz e della ribellione di Kawa, simboli nazionali di rinascita e di liberazione da celebrare in faccia al giogo coloniale di quegli stati che non riconoscevano, bensì sanguinosamente reprimevano, l’identità curda. Al fuoco ribelle del Newroz bruciarono letteralmente moderni Kawa, come Mazlum Doğan, uno dei fondatori del PKK e suicida nel 1982 in protesta alle inumane condizioni di detenzione nel carcere di Diyarbakir, oppure Zekiye Alkan, giovane studentessa che al Newroz del 1990 salì sulle nere mura romane di Diyarbakir, considerata la capitale del Kurdistan, e si dette fuoco. Oggi il Newroz, specialmente per i curdi in Turchia, è una festa in onore dell’unità nazionale contro la repressione dello stato; festa in cui arde il fervore anticoloniale di quel Kawa, che ogni anno rinasce dalle notti della leggenda.
Sandrine Alexie, studiosa di cultura curda e traduttrice in francese di Mem û Zîn – il testo centrale della letteratura classica curda (un po’ la nostra Commedia) -, ri-narra, millesima cantastorie, la leggenda di Kawa, sapendo trasmetterla coi toni talora dell’epica tal altra della tragedia greca. A turno, tutti i personaggi della vicenda accedono al proscenio e raccontano il loro punto di vista, così che quella di Kawa, – in ciò facendo onore alla sua tradizione e trasmissione orale – rimanga una storia che passa di bocca in bocca, narrata da ciascuno secondo il suo ruolo, il suo tempo, il suo luogo.
In più, Sandrine Alexie –tradotta in italiano da Laura Anania- alterna le vicende di Kawa e Zohak a sezioni dedicate alle “Storie Contemporanee del Paese delle parole ghiacciate”, leggi il Kurdistan contemporaneo. E allora il genocidio di Halabja del 1988, la prigione-campo di concentramento di Diyarbakir, la repressione culturale e linguistica subita dai curdi nel Novecento e oltre, si mescolano al tempo fuori dal tempo della leggenda – “io scrivo questa storia che avvenne all’inizio del mondo..” – in modo che il lettore riconosca la tirannia di Zohak e il fervore ribelle di Kawa come forze ataviche sempre attive, come figure archetipiche tuttora in gioco nella storia. La nostra e quella dei discendenti di Kawa.
Francesco Marilungo, Aprile 2016.
Edizione esaminata e brevi note
Sandrine Alexie è ricercatrice e traduttrice esperta di Medioevo mediorientale e in particolare di cultura curda. È stata bibliotecaria dell’Istituto Curdo di Parigi, ha tradotto in francese il classico per eccellenza della letteratura curda Mem û Zîn di Ehmedê Xanî. Fra le altre sue pubblicazioni, oltre agli studi accademici di letteratura e cultura curda, ricordiamo il romanzo Le Rose de Djam (2012).
Sandrine Alexie, Kawa il Kurdo. Il mito di fondazione del popolo Kurdo, Pentàgora, Savona 2013. P. 310, €14.00 Traduzione dal francese Kawa le Kurde (l’Harmattan, 2005) e Appendice storico-bibliografica di Laura Anania.
Kawa il Kurdo è stato pubblicato con il sostegno di Antrocom Onlus e dell’Associazione “Verso il Kurdistan” di Alessandria. È possibile acquistare il libro contattando direttamente l’Associazione o il sito dell’editore Pentàgora.
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