“Ricette semplici” è il primo libro della scrittrice canadese, di origini cinesi, Madeleine Thien. Un’opera che risale al 2001 ma che in Italia abbiamo potuto leggere solo nel 2019 grazie a 66thand2nd (traduzione di Maria Baiocchi e Anna Tagliavini). Sette le storie raccolte in “Ricette semplici”, alcune delle quali erano state già pubblicate su diverse riviste. Lo scrivere della Thien sembra lo specchio esatto delle storie che racconta: un procedere misurato e asciutto, una capacità di introspezione che seduce e inquieta allo stesso tempo, una linearità che somiglia al fluido incedere delle esistenze. C’è la famiglia al centro di ogni racconto, la famiglia vista come un magma senza forma e sempre disarmonico, eppure indispensabile: affetti e legami primari generati dal sangue e dalla consuetudine. La famiglia narrata dalla Thien può essere ispirazione o gabbia, trauma o ascesi, rivelazione o paradosso.
L’infanzia c’è quasi sempre in questi racconti. Infanzia vissuta o infanzia rammentata, d’altro canto alle proprie radici non si sfugge. Anche se, in questi sette racconti, di fughe, almeno tentate, ce ne sono diverse. Il primo racconto è quello che dà il titolo al libro, “Ricette semplici”. Al rituale del lavaggio e della cottura del riso si associano i ricordi della protagonista e voce narrante, una bambina che ha adorato suo padre, un uomo col quale, da bambina, ha instaurato un legame profondo. “Ero così felice quando i miei piedi riuscivano a tenere il ritmo dei suoi, destra, sinistra, destra, e marciavamo come un sol uomo. Mio padre era il mago dei trucchi, poteva starsene per un’ora a estrarre la polpa da un’anguria con lo scavino intagliando un castello dalla buccia“. L’essenza di questo racconto è racchiusa nell’esatto momento in cui la bambina capisce che non potrà continuare ad amare suo padre come ha sempre fatto. Una sorta di epifania che fissa l’istante: “Come riconciliare tutto quello che so di lui e continuare ad amarlo? Per molto tempo ho creduto che fosse impossibile. Da bambina non amavo mio padre perché era complicato, perché era umano, perché aveva bisogno che lo amassi. Un bambino non è ancora capace di amare qualcuno a quel modo. Eppure dovrebbe essere così facile“.
Le famiglie si sfaldano, si ricompongono, si annientano. Sono organo vivente fatto da viventi. Per questo anche difettose e contraddittorie. Le tre sorelle di “Quattro giorni dall’Oregon” vengono condotte altrove da una madre che vuole seguire l’uomo che ama lasciando il padre a casa. Una forzatura complicata da capire e da accettare. La guerriglia che si scatena nella “cellula” familiare distaccata è profonda così come è profonda la voglia che l’uomo tradito, rimasto a casa, dia una prova di forza e di amore: venire a riprendersi moglie e figlie. Non accade. “Avrei dovuto chiedere a Irene perché tutti gli altri sembravano capaci di andare avanti, mentre io lo trovavo così difficile. Chi aveva lasciato chi, mi domandavo spesso. Insomma, chi aveva rinunciato senza nemmeno cercare di resistere“.
Nelle famiglie, spesso, il non detto supera di gran lunga ciò che si esplicita. Certi silenzi servono solo a coprire colpe impossibili da confessare. Silenzi che si aprono come abissi nel corpo e nello spirito di Paula. Il suo bisogno di non essere lasciata sola racconta l’orrore di una molestia che nessuno dovrebbe subire. Ancora più grande, forse, è la colpa di chi sceglie di non voler sapere. Gli intrecci e le dinamiche che si generano tra gli esseri umani sembrano essere spesso la replica, a volte esatta a volte solo più confusa, di quella sorta di “imprinting” che la famiglia, qualsiasi famiglia, ci ha dato. Forme reattive parallele o perfettamente speculari e contrapposte ma, comunque, determinate dalle origini.
È complicato parlare con esaustività di questi sette racconti perché, a ben vedere, ognuno di essi ha la forza narrativa di un romanzo per la densità della trama, per la sottigliezza psicologica dei personaggi, per la dettagliata elaborazione delle scene e dei dialoghi. Vanno lette con partecipazione emotiva le sette storie di “Ricette semplici”, quella partecipazione emotiva che si fa inevitabile quando ci si riconosce, umanamente, in certe evoluzioni mentali e sentimentali, in certi contrasti generazionali, in certe emergenze affettive. Nonostante si tratti di sette storie differenti, non è complicato individuare le capillari prossimità che esistono tra tutti i racconti. Madeleine Thien riesce a scrivere mantenendosi perfettamente in equilibrio e riannodando, ogni volta, i fili di quella magica empatia che può nascere solo tra un’ottima scrittrice e i suoi lettori.
Edizione esaminata e brevi note
Madeleine Thien è nata a Vancouver nel 1974 da genitori cinesi. Si è laureata all’Università della Columbia Britannica con il masters degree in scrittura creativa. Tra i suoi libri pubblicati in Italia “Certezze” (Mondadori, 2008), “L’eco delle città vuote” (66thand2nd, 2013) e “Non dite che non abbiamo niente” (66thand2nd, 2017), con il quale si è aggiudicata svariati premi ed è stata finalista al Man Booker Prize 2016 e al premio Bottari Lattes 2018. “Ricette semplici”, la sua opera d’esordio composta da sette racconti, le è valsa l’inserimento nella short list del Commonwealth Writers’ Prize e l’elogio della connazionale Alice Munro: «Una splendida scrittrice. Sono stupefatta dalla chiarezza e dalla facilità con cui scrive, e dalla sua purezza emotiva».
Madeleine Thien, “Ricette semplici“, 66thand2nd, Roma, 2019. Traduzione dall’inglese di Maria Baiocchi e Anna Tagliavini. Titolo originale: “Simple Recipes” (2001).
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