“Allora, io devo confessare che i libri di Giampaolo Pansa non li ho mica letti tutti e a fondo perché mi prende un rigurgito a prendere in mano quei libri, tuttavia so più o meno come vengono vissuti da quelli che li leggono”. Queste parole di Alessandro Barbero meritano magari qualche precisazione da parte di “quelli che li leggono”; perché c’è da pensare che non proprio tutti coloro che hanno letto i libri di Giampaolo Pansa sui “vinti” abbiano simpatie fasciste; oppure siano stati particolarmente impressionati dalle vicende che Barbero, Montanari ed altri paladini della Resistenza preferirebbero confinate nell’irrilevanza storica. Il sottoscritto, ad esempio, che anni addietro ha letto un paio di quei libri, li ha trovati ben scritti, interessanti anche se con tutti i limiti di un’opera divulgativa che sicuramente non aggiungeva molto più rispetto quello che era già stato scritto da altri ricercatori e rispetto a quello che già si poteva leggere nelle cronache giudiziarie del dopoguerra. La colpa di Pansa, a quanto pare, è stata quella di aver raccontato al grande pubblico le vendette, gli omicidi commessi da partigiani o comunque da parte di coloro che si erano riciclati come tali; così, a detta dei suoi detrattori, incoraggiando il revisionismo della destra. A parte il fatto che, durante e dopo una guerra, è difficile che anche da parte dei cosiddetti buoni – visto che siamo tutti esseri umani – non vengano commesse azioni esecrabili, probabilmente non aveva tutti i torti chi, in merito alla crescente insofferenza per un’immagine della Resistenza, considerata da molti oramai soltanto retorica, riteneva sarebbe stato molto meglio raccontare fin dall’inizio, senza omissioni, luci ed ombre – (“La Verità non danneggia mai una causa giusta”, Mahatma Ghandi) – quello che dopo vent’anni di arrendevolezza ad un regime autoritario, e di fronte all’occupazione di un esercito straniero, avrebbe dovuto rappresentare davvero il riscatto degli italiani.
Comunque la si voglia vedere è un dato di fatto che, fin dalla prima pubblicazione di “Il sangue dei vinti”, si sono immediatamente moltiplicate da un lato le polemiche sanguinose, gli anatemi; e dall’altro, da destra, la soddisfazione di coloro che hanno visto nelle opere di Pansa un modo per legittimarsi delegittimando gli avversari, puntando sostanzialmente all’equiparazione fascismo-antifascismo.
Perché Giampaolo Pansa, lui uomo di sinistra, si sia infilato in questa feroce polemica lo ha spiegato bene Marco Travaglio, quasi a voler ridimensionare gli insulti e il disprezzo che lo hanno accompagnato a partire dal 2003, anno della pubblicazione del “Sangue dei vinti”, fin dopo la sua morte: “era impossibile non litigare con lui, anche perché cambiava continuamente idea. O forse cambiava semplicemente umore (il che, secondo me, spiega il suo accanimento sui delitti partigiani: la sinistra li negava e lo attaccava, lui esagerava all’opposto, per tigna)”. Questa testardaggine (“la tigna”) in fin dei conti è proprio il marchio di fabbrica di “Quel fascista di Pansa”. Ostinazione che l’autore dispensa a piene mani sia nel raccontare ancora una volta episodi di vendetta – o meglio di delitti da parte di chi approfittava del caos e dell’impunità post guerra per regolare conti in sospeso – sia nel raccontare episodi della propria vita che avrebbero condizionato il suo interesse per la sorte dei “vinti”. Non ultimi i ricordi di coloro che, da sinistra, lo hanno incoraggiato nel proseguire con le sue ricerche. Come l’incontro nel maggio 1959 con Ferruccio Parri: “Ma se ripenso a quel maggio del 1959 mi rendo conto che, senza accorgermene e soprattutto senza averlo programmato, mi comportai come chi entra in una cristalleria e comincia a mandare in frantumi i pezzi più delicati […] Pensai di averla fatta grossa. Ma a rassicurarmi fu Parri. Quando la giornata [ndr: dedicata a un convegno sulla storiografia della Resistenza] si concluse mi prese in disparte e mi disse: Hai fatto bene a tirare il tuo sasso sui vetri della nostra parrocchia. Così il vetro si è rotto e abbiamo visto tutti i nostri difetti” (pp.53). Oppure le parole dei lettori durante la presentazione del “Sangue dei vinti”: “Le inchieste che sta scrivendo sul dopoguerra pieno di sangue non mi fanno piacere, perché servono alla destra di Berlusconi. Ma la verità va detta, anche quando fa male” (pp.117). Ed ancora l’incoraggiamento un po’ cinico ma molto realistico di un amico ingegnere: “Se un boss politico o qualche suo tirapiedi sostiene che un’opera è infame, racconta falsità, offende questo o quel mito storico, e che il suo autore è un tipo maledetto, un farabutto, un falsario spregevole, il gioco è fatto […] Morale della favola: venderai un vagone di copie” (pp.128).
Per poi giungere al racconto dettagliato delle aggressioni – tipo quelle ad opera del gruppo Antifascist militant al grido di “Viva Schio” – od anche soltanto delle contestazioni caratterizzate da un ragionamento non proprio lineare: “Del resto l’accusa di aver raccontato bugie veniva smontata da quella opposta […] Era di aver narrato vicende già note e rievocate da altri autori. Se erano cose risapute, come potevano essere false” (pp.130).
Giampaolo Pansa peraltro, dall’inizio alla fine del suo libro, rivendica la sua cultura di sinistra e, non a caso, riafferma più volte il suo pensiero in merito al cosiddetto revisionismo: “Il mio revisionismo era sostenuto da una serie di verità semplici, anzi, persino banali […] la terza è che riferire le ragioni dei vincitori e degli sconfitti non significa condividerle […] essere revisionisti significa battersi contro il virus che uccide la verità. Perché non c’è verità quando una vicenda politica non viene raccontata per intero” (pp.135). Ed ancora citando le parole dell’amico Paolo Galletti, esponente dei Verdi e dell’Alleanza dei Progressisti, da lui intervistato con queste parole “Il sangue dei vinti che effetto ti ha fatto?”: “L’ho trovato positivo. Era ed è giusto raccontare tutto […] E non penso tanto alla pacificazione nazionale che ne può derivare, penso piuttosto all’affermazione della verità. La lotta di liberazione dal fascismo e dal nazismo ha tutto da guadagnare nel raccontare la verità per intero” (pp.171).
Affermazione che fa il paio con le parole di Pansa: “L’antifascismo è la mia patria, il mio mito è il giovane partigiano che libera la mia città. Ma quando è uscito Il sangue dei vinti ci sono state persone che mi hanno dato del falsario ancora prima di aver letto il libro, e io avevo la conferma di quello che era sempre stato il mio convincimento: noi antifascisti dovevamo avere il coraggio di essere più aperti verso il mondo che non è identico a noi, di cercare di includerlo e non di escluderlo”.
Convincimento andato subito in malora: ad epilogo del libro troviamo un’antologia di lettere ricevute da Pansa subito dopo la pubblicazione del “Sangue dei vinti”, che spaziano da sostegno, incoraggiamento, passando per delusioni, sconcerto, per poi giungere a veri e propri insulti. Ennesima conferma di come nell’affrontare certi argomenti – o forse tutti – negli italiani si scopra il loro Dna di Guelfi e di Ghibellini.
Edizione esaminata e brevi note
Giampaolo Pansa, (Casale Monferrato, 1935 – Roma, 2020) è stato un giornalista e scrittore italiano. Ha scritto su “La Stampa”, “Il Giorno”, “Epoca”, “Panorama”, “L’Espresso”, “Il Messaggero”, “Repubblica”, “Libero”; e ha pubblicato numerosi saggi e romanzi di grande successo. Tra gli ultimi libri pubblicati da Rizzoli “I vinti non dimenticano” (2010), “La guerra sporca dei partigiani e dei fascisti” (2012) e “Sangue, sesso e soldi. Una controstoria d’Italia dal 1946 a oggi”.
Giampaolo Pansa, “Quel fascista di Pansa”, Rizzoli (“BUR Rizzoli”), Milano 2020, pp. 240.
Luca Menichetti. Lankenauta, marzo 2022
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