Imprimere la vita sulla carta, imprimerla con le rotative della stampa, occuparsi della scrittura poetica, come centro nodale di esperienze ai limiti della conoscenza, nascondere segreti in pagine lucide ma appassionate, vive e vibranti di quella passione che Ranieri Teti ha saputo e sa irradiare, attraverso il Premio Lorenzo Montano, per esempio, di cui è uno dei cofondatori, in cui l’ufficio è entrare nelle scritture altrui.
Bisogna farlo con discrezione come meritano tutti i libri, in special modo i libri belli, come questo suo “La vita impressa”, edito da Book Editore nel marzo del 2022, che sembra fatto di cristallo e di una strana tenebra, di uno straniamento linguistico affilato, in cui la parola nasconde se stessa per rivelarsi non solo segno di qualcosa ma essa stessa evento sufficiente non a descrivere il mondo ma a incantarlo.
Perché siamo nell’incantesimo di una parola in cui le distinzioni fra prosa e poesia finalmente decadono, barriere inutili e queste prose disseminate d’intuizioni sotterranee, ricche di lampi di un’evocazione taciuta ma sempre presente, sono un esempio di poesia davvero contemporanea.
Ranieri Teti solca il mare della letteratura, memore di molti viaggi e viaggiatori che l’hanno preceduto, consapevole che il poeta, come nella citazione di Marina Cvetaeva, è un “emigrato”, uno straniero, forse un apolide. È il discorso che comincia con Baudelaire, in particolare, in questo caso, trattandosi di prose, con il Baudelaire de “Lo Spleen di Parigi”.
La parola della poesia come sogno lucido, fatto al cospetto di una ragione invece sempre più instabile e precaria, poesia come disvelamento della potenza dell’essere, contemporaneità come luogo delle proliferazioni di linguaggi, sottratti a quella che Hugo Friedrich chiama “comprensibilità limitante” e Fondane “tutela del luogo comune”. Non ciò che è attuale (vecchiume rimesso a nuovo) ma ciò che eternamente torna. Ranieri Teti scrive: “si vive, progressivamente entrando nell’ordito di un ritorno”. E in questo ritornare si tenta un’ebbrezza, “ebbrezza dei placamenti”, “nel terreno fragile del continuo esordio”.
“Presagi” è una delle parole chiave per questo linguaggio che presagisce se stesso, non si conosce, si svela come un’irradiazione enigmatica, una fluttuazione “tra astrazioni e figurazioni, fra scrivere ed essere scritti, fra interiorità ed esterni in sovraimpressione”. È la scrittura questo ingranaggio che vortica quasi automatico, l’autore, il cosiddetto autore, solo un testimone dell’evento o un veicolo che viene trasceso nel canto o nell’”improvviso del momento”; scrittura come figurazione estrema sull’orlo del silenzio e del niente.
E non è un paradosso che una scrittura così fluida e ispirata sappia erompere come un gesto calcolato al millesimo. L’ispirazione qui è metodo. Il poeta non sa qual che dice, non può saperlo perché non è onnisciente, ciò comporta l’assunzione del linguaggio come crisi e ferita dell’essere. “Balbo parlare” che ci avvicina alle stelle e là ci lascia. Nell’abbandono siderale. Ricordiamo Emily Dickinson: “Quando mi trovo a contatto con la poesia, provo un freddo così intenso che penso che nessun fuoco potrà mai più riscaldarmi”.
Fa riflettere l’assenza del punto alla fine di queste prose, come se esse fossero dei movimenti destinati a srotolarsi all’infinito, senza fine, appunto, e forse senza un vero inizio perché anche la maiuscola manca sempre nell’incipit. Qualcosa accade: movimenti nell’amnio di un pensiero, percezioni minime, echi di un cinema mentale, distorsioni, segnali intrapsichici che la coscienza appena percepisce, tutto questo è dissolto come un’essenza in queste prose, con un’ elegante noncuranza. Si avverte un lavorio incessante, il lavorio di trasformazione poetica del linguaggio comune, dove emergono come espressioni le armonie prerazionali dell’intelletto poetico per cui esiste ”il taxi di tutte le direzioni”, esiste misterioso “un istante attraversato di schianto”, i paesaggi divengono spazi interiori e viceversa, si percepisce fra “l’osceno dei minuti ripetuti a spirale” emergere un’idea di poesia cinematografica, dove mancando ogni io narrante, il moltiplicarsi dei singoli fotogrammi è affidato a una regia casuale ma al tempo stesso fatale e necessaria. Non si gioca più, dove tutto è gioco. Nessun codice prestabilito e come rito solo “il rito degli assedi”. Più ancora che una poesia cinematografica una poesia in cui gli atti di vedere, sentire, udire, acquistano profondità non consuete. Pensiamo alla prosa conclusiva “Onde d’inchiostro”, dove le immagini si sovrappongono, s’intersecano passi sul selciato, il sonoro di un film, la portiera di una macchina, il mare, fino all’inabissarsi di viaggi notturni, “gli inchiostri nella vita delle cose mute” , il vibrare di “passi sospesi”. Così piccoli film si girano, si accennano, nel compiersi di poche righe. Sintesi estrema. Aveva ragione Carmelo Bene: la poesia realizza il cinema più profondamente di qualsiasi film.
Anche Laura Caccia, nella sua bella nota finale, scrive di “lungometraggio erratico”, ”scorci di fotogrammi”. Infine di “sfida poetica al tempo, al senso, alla morte”. Così Ranieri Teti addensa ancora il suo “lento addosso d’ombra” intorno al nocciolo duro della poesia e lascia un itinerario da seguire.
Edizione esaminata e brevi note
Ranieri Teti, La vita impressa, con una nota di Laura Caccia, Book Editore, marzo 2022
Ranieri Teti (Merano,1958), cofondatore e responsabile del Premio “Lorenzo Montano” ha pubblicato “La dimensione del freddo”(1987), “Figurazione d’erranza”(1993), “Il senso scritto”(2001), ”Controcanto (dalla città infondata)” (2008)”Entrata nel nero”(2011). “La vita impressa”(2022). Collabora a riviste, cartacee e online, italiane e straniere e cura le edizioni della rivista Anterem.
Anterem
La dimora del tempo sospeso
Blanc de ta nuque
Ettore Fobo, Lankenauta, maggio 2022
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