“Quello che ho cercato di comporre è un mosaico ragionato, di testimonianze, di piccole grandi storie che raccontano il cuore di tenebra di una terra segnata dal dolore e dal sangue ma ancora ricca di ideali e di utopie possibili”. Forse basterebbero queste poche parole dall’introduzione di Riccardo Michelucci, autore di Guerra, pace e Brexit, il lungo viaggio dell’Irlanda, per riassumere il volume edito da Odoya uscito da pochi mesi (pagg. 277 euro 20,00). Lo scrittore e giornalista fiorentino, il massimo conoscitore italiano e non solo della storia recente e meno dell’Irlanda, segnatamente in relazione alla storia del conflitto che dalla fine degli anni ’60 del secolo scorso ha insanguinato per trent’anni i territori dell’Irlanda del Nord, ha raccolto in questo prezioso volume il frutto del suo appassionato (a tratti in modo commovente) nonché dettagliato e informatissimo lavoro di una vita. Si tratta di articoli usciti su quotidiani, riviste e trasmissioni radiofoniche. Una vera e propria forma di militanza verso la causa di un popolo e una terra che lo stesso autore si rifiuta da sempre di pensare divisa come avvenuto a seguito della partition di un secolo fa che ha diviso artificialmente i territori dell’attuale Repubblica d’Irlanda con quelli delle sei contee dell’Ulster, l’attuale Irlanda del Nord, nella quale la storia degli ultimi decenni racconta della difficile, dolorosa e sanguinosa convivenza fra la comunità cattolica e quella protestante filo britannica. Gli anni dei cosiddetti Troubles parlano di questo e benché il processo di pace suggellato con gli Accordi del Venerdì Santo del 1998 e il successivo cessate il fuoco fra le parti in causa (l’IRA e i gruppi paramilitari lealisti fedeli a Sua Maestà), fino ai giorni nostri si devono registrare rigurgiti di violenza che quando anche sporadici testimoniano di un fuoco che in parte cova ancora sotto la cenere, dovuto all’insofferenza, anche se minoritaria, verso un’occupazione e oppressione secolare da parte della corona britannica verso il popolo irlandese mai scomparsa del tutto, alla quale solo un’auspicabile riunione delle due “Irlande” potrebbe finalmente porre fine.
Michelucci lo spiega bene nel volume i cui articoli sono infatti divisi in tre parti, per tre grandi aree tematiche non necessariamente scandite da una rigorosa cadenza cronologica. La prima parte racconta dell’evoluzione storica e politica e dei cambiamenti in atto nel paese dall’accordo di pace del 1998, focalizzando l’attenzione sulla lotta per la verità storica e giudiziaria, attingendo dalle testimonianze dei sopravvissuti al conflitto e dei suoi maggiori e minori protagonisti. La seconda si occupa del difficile percorso diplomatico e istituzionale degli ultimi anni, a partire dal decommissioning del 2005, la messa fuori uso delle armi da parte dell’IRA, in un conflitto che ha causato da ambo le parti 3600 morti, dei quali oltre la metà civili, per chiudere con la terza parte di articoli che lanciano uno sguardo sul futuro e idealmente un auspicio sulla base dell’evolversi delle mutate prospettive geopolitiche relativamente al terremoto innescato della Brexit, nella speranza della riunificazione e completa pacificazione di una terra dilaniata e oppressa da secoli. Il conflitto anglo-irlandese che ha insanguinato le terre dell’Ulster nel secolo scorso affonda infatti le radici in un’oppressione lunga ben ottocento anni, questa la durata della sudditanza del popolo irlandese nei confronti della corona britannica, che in vari modi durante i secoli l’ha soggiogato, sfruttato, ghettizzato e in varie occasioni sterminato o contribuito a farlo come accaduto per effetto delle politiche adottate a seguito della tragica carestia della patata che negli anni tra il 1845 e il 1850 causerà un milione e mezzo di vittime, un evento che molti storici paragoneranno per la sua mostruosa entità allo sterminio nazista. Di tutto ciò Michelucci dà conto in un altro essenziale e dettagliatissimo volume: Storia del conflitto anglo-irlandese, otto secoli di persecuzione inglese, sempre edito da Odoya, opera fondamentale per chiunque voglia avvicinarsi alla conoscenza della storia di un popolo orgoglioso e un paese meraviglioso che a dispetto del trovarsi all’estrema periferia del continente europeo da sempre è stato messaggero di valori universali quali la lotta per la libertà, l’orgoglio della resistenza, la diffusione della pace e dei diritti civili.
Gli esiti più recenti del conflitto sul quale è incentrato il volume di Michelucci che ha interessato in modo violento le terre d’Irlanda nello scorso secolo a partire dalla fine degli anni ’60 e per i successivi trent’anni non è che la conferma di tale oppressione e la testimonianza dell’esistenza nella civilissima Europa fino a pochi anni fa (e parzialmente ancora oggi) di un colonialismo bieco e aggressivo che nel nome del settarismo ha oppresso le minoranze (nella fattispecie cattoliche), con la violenza e con il discrimine riguardo ai più elementari diritti civili, quali il diritto alla casa, al lavoro, alla rappresentanza politica. La questione religiosa è stata da sempre, come osserva giustamente Michelucci, il grimaldello per nascondere lo scontro tra le rivendicazioni dell’indipendentismo irlandese e l’imperialismo della forza di occupazione britannica, non a caso la partition del 1921 ha assegnato al governo di Sua Maestà i territori del nord, economicamente i più ricchi. La struttura del libro sembra seguire l’evoluzione e le contorsioni della storia che ha interessato il nord Irlanda negli ultimi difficili decenni, tramite un’attenta e dettagliata scansione di eventi, e tramite gli sviluppi processuali delle più tragiche vicende spesso narrate dalla viva voce delle donne e degli uomini coinvolti.
Tra questi da notare i bei ritratti che fa l’autore delle sorelle Price, Dolours e Marian, due delle militanti dalla prima fase del conflitto e successivamente vere e proprie dissidenti rispetto alla linea intrapresa dal Sinn Féin (il maggiore e storico partito indipendentista) che da parte di molti repubblicani ha assunto nel tempo l’aspetto di un partito di massa prono al volere del potere economico inglese, tanto da sacrificare sull’altare della pace gli ideali originari di autodeterminazione di un popolo per i quali in tanti avevano combattuto. La denuncia di Marian Price delle terribili condizioni repressive e carcerarie, identiche per i dissidenti politici a tutt’oggi a quelle dei primi anni dei Troubles mostrerebbe l’illusorietà della vittoria repubblicana e l’inganno perpetrato nella continuazione del dominio inglese. Sulla stessa linea figure come quella di Brendan Hughes soprannominato “Il Che Guevara di West Belfast”, il quale nel compromesso politico del Sinn Féin vedrà la rinuncia alla vittoria completa della causa repubblicana e non avrà parole di velluto per Gerry Adams, lo storico leader del partito già compagno di lotta oltreché di detenzione di Hughes nelle prime fasi del conflitto. A dispetto dell’innegabile ruolo che Gerry Adams ha svolto nel processo di pace, alcune ombre e diversi scheletri nell’armadio incombono ancora sulla sua figura, reo per alcuni dei più intransigenti repubblicani di aver svenduto le lotte e gli ideali del loro popolo per un compromesso politico al ribasso che ha più a che fare con ambizioni di potere che con la causa dei repubblicani e la definitiva liberazione dal giogo britannico, su tutti l’infame macchia di aver tenuto nascosto l’accordo segreto che il governo di Londra pose sul piatto delle rivendicazioni dei prigionieri del tristemente noto carcere di Long Kesh, con Bobby Sands che morirà dopo 66 giorni di sciopero della fame nel 1981, al quale farà seguito la morte di suoi nove compagni, accordo che avrebbe potuto risparmiare loro la vita. Molti altri sono i protagonisti dell’epopea repubblicana nordirlandese i quali in diversi modi hanno contribuito, chi con le loro azioni, la loro vita e in alcuni casi la propria morte alla pacificazione odierna. Da ricordare Bernadette Devlin che a ventun anni diventerà la più giovane deputata al Parlamento di Westminster oltreché un’appassionata militante repubblicana e simbolo della lotta per l’emancipazione femminile, o il Nobel per la pace del 1998 John Hume, riconoscimento conferitogli a seguito del suo impegno che sfocerà nell’Accordo del Venerdì Santo, senza dimenticare le vittime della crudeltà cieca del conflitto quali l’avvocato Patrick Finucane ucciso nel 1989 in casa propria davanti ai propri figli da un commando paramilitare unionista con la connivenza delle autorità nordirlandesi e britanniche. L’unica sua colpa: aver difeso dei militanti repubblicani fra cui Bobby Sands. Alle donne e gli uomini che hanno attraversato la drammatica stagione del conflitto si sovrappongono dati, eventi maggiori e minori e i molti episodi dai quali traspare come la polizia del nord e le autorità britanniche hanno spesso coperto i gruppi paramilitari unionisti a partire dalla miccia che innescherà il trentennio di lotta e di sangue. Nell’agosto del 1969 la guerriglia scatenata dalle milizie protestanti con l’avallo del governo inglese nel quartiere cattolico di Derry e passata alla storia come “la battaglia del Bogside”. A seguire il tristemente noto 30 gennaio 1972 nella stessa città, per sempre la Bloody Sunday, nella quale un battaglione di paracadutisti dell’Esercito britannico sparerà indiscriminatamente su una folla pacifica di dimostranti durante una manifestazione per i diritti civili, uccidendo quattordici persone. Solo nel 2010 a seguito della lunga inchiesta del rapporto Saville arriverà il riconoscimento di responsabilità da parte britannica per voce dell’allora primo ministro David Cameron, un’ammissione della responsabilità dei parà nella mattanza della Bloody Sunday senza che questo abbia però portato a qualsiasi incriminazione specifica, né per le autorità mandanti, a partire dai responsabili politici dell’epoca né per gli esecutori materiali se è vero che mezzo secolo dopo nessun militare o i vertici politici allora in carica sono andati alla sbarra, anzi in alcuni casi hanno goduto di una brillante carriera. Un evolversi sempre più cruento del conflitto e delle persecuzioni nei confronti della comunità cattolica e repubblicana che subirà nel corso degli anni una vera e propria discriminazione di tipo etnico che sfocerà in veri e propri brutali pogrom con intere famiglie costrette a fuggire, con le loro abitazioni date alle fiamme e con le continue provocazioni che in parte si sono protratte fino ai giorni nostri, mentre dall’altra parte è giusto non tacere del sangue e del dolore causato dagli attentati dell’IRA fra la comunità protestante, senza che questo debba portare a un’equidistanza, un ecumenismo e una condivisione delle colpe che nei dilaniati territori dell’ Irlanda del Nord trova le sue radici in secoli di oppressione culminati nell’epoca più recente con la sciagurata divisione dell’isola di un secolo fa e con l’ingiustizia costantemente subìta dalla popolazione cattolica e repubblicana irlandese nel corso degli anni, fino al periodo più tragico dello scontro a partire dalla fine degli anni ‘60 del secolo scorso, fomentata nella maggior parte dei casi dalle squadracce lealiste con la complicità delle forze di sicurezza nordirlandesi e la collusione del governo britannico.
Drammaticamente emblematica è la vicenda dei “Quattro di Guilford” (resi celebri a tutto il mondo con il film del 1993 di Jim Sheridan Nel nome del Padre), donne e uomini del tutto estranei ai fatti e accusati arbitrariamente di aver piazzato una bomba nel pub di una cittadina inglese solo per dare in pasto all’opinione pubblica a tempo di record i colpevoli di una di quelle azioni terroristiche che stavano insanguinando il paese o la tragica vicenda della Miami Showband, un gruppo musicale simbolo della possibile integrazione fra due comunità divise, i quali diretti da Belfast a Dublino per un concerto in una notte di estate del 1975 verranno fermati a un posto blocco solo in apparenza da militari britannici, quando in realtà si trattò di una tragica imboscata che finirà in una carneficina nella quale perderanno la vita alcuni dei componenti del gruppo oltre ad alcuni dei paramilitari lealisti che l’avevano predisposta al fine di far passare il gruppo (allora molto noto) quale una cellula terroristica pronta ad un’azione di sangue. La drammaticità del conflitto nordirlandese consta anche di episodi minori qui riportati e che ne testimoniano la durezza: la strage di bambini avvenuta in trent’anni, il raccapricciante piano degli unionisti, fortunatamente abortito all’ultimo momento, di un assalto a una scuola elementare e molti altri che hanno lasciato un segno indelebile sui familiari delle vittime che ancora chiedono giustizia.
Una particolare attenzione è rivolta da Michelucci al rapporto tra letteratura e politica che in Irlanda sono sempre andate a braccetto, non a caso un paese con sette milioni di abitanti ha partorito quattro premi Nobel per la letteratura, tutti legati nella loro opera più o meno esplicitamente alla realtà storica e politica della propria terra, senza mancare di notare che l’attuale presidente del Nord Irlanda è Micheal D. Higgins, “il presidente-poeta” al quale l’autore dedica un commovente ritratto. Puntuale è la carrellata delle opere e della biografia di scrittrici e scrittori contemporanei dell’Irlanda divisa che si sono occupati nei loro romanzi del conflitto, da Anna Burns vincitrice del Man Booker Prize a Glenn Patterson, fino alla più nota anche da noi Edna O’Brien, senza dimenticare Michael Longley che deve essere considerato il più grande poeta irlandese vivente, colui che ha raccolto idealmente il testimone di Seamus Heaney (uno dei quattro Nobel della terra d’Irlanda). La letteratura e la poesia esprimono quella dimensione trascendente indispensabile per costruire la pace, che non può essere legata esclusivamente al pragmatismo dei negoziati ma deve, proprio come la poesia, essere immaginata, un modo per trascendere la ragione e “annotare le proprie incertezze” come dirà Michael Longley.
La storia del conflitto anglo-irlandese, sia nell’epoca più recente che nei secoli scorsi è paradigmatica e universale circa le conseguenze dell’odio fratricida e delle divisioni in seno ai popoli, spesso spacciate per questioni ideologiche o religiose nascondendo le più prosaiche motivazioni economiche e i furori predatori di un popolo, anzi dei loro governanti rispetto a un altro ma costituisce anche, con tutte le difficoltà sul campo, un ventaglio di soluzioni possibili, un vero e proprio modello se si pensa che da quanto avvenuto a partire da metà anni novanta fino agli accordi di pace hanno tratto ispirazione le delegazioni sciite e sunnite nella ricerca di una via d’uscita alla crisi irachena come pure con tutte le difficoltà specifiche la storia del nord Irlanda è costante riferimento per la soluzione del conflitto israelo-palestinese. La terza parte del preziosissimo libro di Riccardo Michelucci, a dispetto di quanto ancora in essere in una città come Belfast dove ancora oggi resistono in alcuni quartieri i cosiddetti “muri della pace” (quasi un ossimoro) per evitare scontri fra le opposte comunità, riesce a prospettare dei meno foschi orizzonti per l’Irlanda nell’attesa dell’evolversi della situazione post-brexit, ma anche per qualsiasi regione del mondo in guerra. A farlo sperare sono le parole di John Hume, Nobel per la pace del 1998, definito dopo la sua scomparsa avvenuta due anni fa “il Martin Luther King irlandese”, protagonista della stagione più dura del conflitto, il quale dirà: “La pace può essere costruita ovunque, anche di fronte a crisi che sembrano irrisolvibili, usando la politica come alternativa alla violenza dei gruppi armati”. Un modello universale quello dei territori d’Irlanda devastati dal conflitto, grazie al sacrificio e alla testimonianza di donne e uomini e ai fautori di un processo di pace ancora in divenire e che con tutte le difficoltà, le recidive e le recrudescenze di odi e divisioni secolari mai del tutto sopiti ha portato a una più o meno pacifica convivenza e a un’auspicata e futuribile integrazione tra le diverse anime di un paese unico e meraviglioso al quale il lavoro di Riccardo Michelucci rende il giusto tributo, diventando allo stesso tempo questo il più valido strumento di conoscenza per chi si vorrà avvicinare o approfondire la sua lunga e spesso dolorosa storia.
Edizione esaminata e brevi note
Riccardo Michelucci è nato e vive a Firenze. Giornalista freelance, saggista e traduttore. Dopo un passato radiofonico a Popolare Network, da alcuni anni si dedica quasi esclusivamente alla carta stampata: scrive su Avvenire, Focus e Il Venerdì di Repubblica. È stato anche uno degli autori e dei conduttori della trasmissione Wikiradio, in onda tutti i giorni su Radio Rai 3. Ha collaborato anche con Il Manifesto, L’Unità, D-la Repubblica delle donne, Carta e Storia & Dossier. Tra i libri pubblicati: Storia del conflitto anglo-irlandese. Otto secoli di persecuzione inglese (Odoya, 2009), L’eredità di Antigone. Storie di donne martiri per la libertà (Odoya, 2013), Guida alla Firenze ribelle (Voland, 2016), Bobby Sands. Un’utopia irlandese (Clichy, 2017). Nel 2011 ha vinto il premio letterario Firenze per le culture di pace, dedicato a Tiziano Terzani.
Riccardo Michelucci, “Guerra, pace e Brexit, il lungo viaggio dell’Irlanda” (Odoya), collana Odoya Library, pag. 277, pubblicato il 15/01/2022
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