Grande Claudia

Bim Bum Bam Ketamina

Pubblicato il: 14 Febbraio 2023

“Tutta la nostra vita è percorsa sotterraneamente da compiti già assegnati: le coincidenze non esistono” J.G. Ballard



Claudia Grande ha deciso come il folle presidente in “The dead zone” di King/Cronenberg, di girare la chiavetta e far partire questo ICBM a testate multiple che è “Bim Bum Bam Ketamina”.

Non inganni il titolo: è una trappola pop (un furby killer?) che Claudia congegna abilmente, sintetizzando in questo abracadabra, la nostra realtà tossico-fanciullesca-anni ottanta-novanta; la palingenesi finale di quel “cittadino minorenne” – come afferma il “Dottore” Gian Maria Volonté ne “L’Indagine…” di Petri – un Doom “petaloso” saturo di influencers, food bloggers, talenti ammaestrati come scimmiette obbedienti sull’organetto e singolarità quantistiche, tutto quanto livellato a un puerile “top notch” tanto schiamazzante quanto superfluo e spietato; con spirito d’osservazione acuto e avventuroso, Claudia Grande – e sorprendenti slanci poetici – ci svela il passaggio segreto ai “sotterranei ballardiani di compiti assegnati” da entità enigmatiche, autocratiche (come il signor Glovo) che conduce da Amadeus alla porta degli inferi.

Ed eccoci in mezzo alla discarica abusiva delle scorie di una infosfera ipertrofica e fallace, che fermentano accanto a brandelli di carne sintetica proveniente da inquietanti laboratori di bioingegneria, esalando gas venefici, allucinogeni; se Don DeLillo in “White noise” materializza questa emanazione in una vera e propria nube tossica, Claudia c’invita a fare rafting in uno Stige in piena di grasso bruciato che erutta pop-corn.

È la Neo-Cacania dell’ennesimo e non ultimo “uomo senza qualità”, Roberto, protagonista “tuttofare”, che ci accompagnerà nelle varie situazioni descritte nel romanzo; ma non è il déjà vu del frivolo che viene drappeggiato sull’orrore senza nome della morte; è la magia nera dell’assetato di consensi (di eternità? di quella perfezione immobile e assoluta che era già la “magia” del cinema?) che ci possiede come Pazuzu, e che ci spinge (per meritare davvero il nostro quarto d’ora warholiano di gloria, dacché l’eternità/divismo sono stati spicciolati e pasturati a tutto il banco di aringhe in cui ci hanno trasformato) a tagliarci una mano, per poi scomparire proprio nel momento in cui il gesto estremo innesca il profluvio di likes, l’anelata viralità; perciò si diventa virus (nel senso di invisibili) proprio nell’istante esatto in cui il disembodiment del profilo social e la scomparsa tout-court della persona fisica si eclissano.

Ma siamo oltre la disincarnazione o il topos della maschera: muniti di tute “disindividuanti” come in “A scanner darkly” di Philip Dick – le stesse indossate dai poliziotti-tossici infiltrati tra i tossici-tossici per non riconoscersci fra di loro quando tornano alla centrale per fare rapporto- diventiamo una ridda di volti, espressioni, costumi che si alternano incessantemente in un morphing che impedisce di capire chi ci sta di fronte e chi siamo noi ai suoi occhi. Allora, se esistiamo solo a condizione di “essere immaginati da altri” ecco arrivare al nocciolo della questione posta da Grande: il “paradosso di Roberto” della sua inspiegabile anonimia pur esistendo. Nessuno del resto è ciò che dice di essere: la “faccia da Giuliana” si chiama in realtà (quale?) Francesca; chi ti salva prima di spiccare il salto fatale dalla Torre di Pisa, indossa un passamontagna; l’attrice sexy parla con la voce ammaliante della sua occulta sorella obesa; ci smazziamo una vita da meschini, mediocri, micragnosi poi finalmente microscopici, attraversiamo l’interstizio sfuggito al Sigillatore universale delle bolle-filtro.

“Mi si vede di più se vengo e sto in disparte o se non vengo proprio?”…anche se da allora il gioco di specchi si è fatto ancora più intricato, come in “Us” di Jordan Peele, cito Moretti perché (impressione personale) in alcuni tratti gli psicotici presentatici da Claudia Grande li ho sentiti vicini al Michele Apicella di “Bianca” animati da una maniacalità sì, diabolica, quanto malinconica.

L’anonimia e il “disindividuamento” la natura sfuggente di questi personaggi, non ci induca a pensarli come marionette funzionali ad uno story telling sconcertante: essi al contrario hanno tutto lo spessore e la massa critica pesantissimi della persona cui abdicano; concreti e corrosi come statue che compongono il fregio mutante di quelle infinite declinazioni del trauma sociale/social dell’esserci & del farci; la Mano amputata è la Mano di Gloria di una latente ma inesausta magia nera che percorre il libro: l’amuleto più potente, la mano recisa all’impiccato che conferiva un potere tale da annichilire chi, incautamente, di questo potere era investito.

Siamo condotti (per mano) da Roberto in questo universo di tulpa di Teo Teocoli consacrati alle patatine del Macdonald, figli di madri leviatano con le calze a compressione graduata, reclusi in un OPG per un crimine privo di intenzione come la vita lo è di un senso. Le parole intanto, che ci illustrano anzi ci imprimono nell’ippocampo questo viaggio allucinante, scorrono fluide, colorate perciò ci lasciamo cullare fiduciosi, intrigati, divertiti, curiosi come proverbiali portinaie di sapere “come andrà a finire” rassicurati dalla freschezza della lingua, attuale ma comprensibile anche per un mezzo boomer come me, pur nei registri grotteschi aggiogati con sapienza ad una ironia che ci strappa un sorriso proprio quando ci gela in una smorfia d’automa, perturbante, esanime e, senza rendersene nemmeno conto, siamo piombiati nel key-hole di follia (dopo bim bum bam, la ketamina) dove l’ego-dissolution diviene tangibile; anzi ego melt-down, perché l’ego negli anni Venti di questo secolo sgangherato, criptofascista e inquietante, non è qualcosa che si perde romanticamente nel ritrovare “sé stessi” tipo “adesivo del vagabondo” attaccato dietro alle Renault 4, ma il cadavere di Moro nel bagagliaio; è la nostra “identità” passata al vaglio di ruoli schizoidi che si avvicendano in rapida successione in cui siamo trafilati al
bronzo come fusilli, quotidianamente, che si agglutina da prima in una massa informe, come (spoiler) William Hurt alla fine di “Altered States” per poi liquefarsi e disperdersi nella miriade di rivoli dell’inadeguatezza che diventa la compulsione solitaria di un volantinaggio dove svendersi in tutto e per tutto, vantando sterminate incompetenze; un precariato consustanziale all’esistenza; la vanità straniante nel nostro diventare machine elves inconsapevoli, e pur tuttavia sorridenti, compiaciuti, instagrammabili nella propria disgregazione connotabile ancora come “umana”.

Una precisazione: sono superfan di “ibridazione” “perdita di identità” “transumanesimo” ecc… ma per espansione, perdita di individualità in favore di una consapevolezza di partnership estese con altre forme di vita: commensali, parassiti, lieviti, batteri e siccome sono (come ha avuto il garbo di definirmi un caro amico) un “coglione cibernetico” anche le macchine, con le quali condivido da molti anni una stretta, vitale relazione; ovvero: l’identitarismo non è e non sarà mai la soluzione. Non torneremo individui perché non lo siamo mai stati, se non per approssimazione o perché immaginati tali da altri. La perdita di individualità è sempre un movimento di espansione/diluizione fino alla smaterializzazione, allo zero immenso landiano. (chiusa parentesi da “stupido accelerazionista”, altro titolo di cui amo fregiarmi, torniamo a Claudia)

Il trauma sociale/social è ciclico: in un età remota c’è stato un trauma primario, forse lo scontro fra australopitechi nei pressi di una lercia pozza argillosa al cospetto della proporzione perfetta del Monolito Nero, lo schermo primigenio, il grande prototipo del primo smartphone, lo schermo che trasforma Roberto in una congerie di personaggi di fantasia con i quali altrettanto anonimi e ossessivi fan cercano una interlocuzione fallimentare; ma non è dato saperlo se non tramite i sibillini borbottii dei testi sacri o le ipotesi di antropologi e psiconauti: lo riconosciamo nello stesso smarrimento di Musil, perché il mondo evidentemente faceva già abbastanza schifo da tempo, anche senza tv e internet (“oracoli dei deficienti” in una felice definizione dell’autrice) e, antropologicamente, poco è cambiato: le mode, i media, i modi e le tecniche di ingaggio ed exploitation; le regole balorde del servilismo e dell’arroganza, lo slang, l’allineamento delle ruote dei pattini, la farmacologia.

Claudia Grande ha scelto di condurci in ipogei che annusavamo ma dei quali mancava una mappatura accurata per gli ardimentosi che nel fermentato oleoso di iperoggetti marci, vanno a rufolare imperterriti, come in una cesta al mercato, ed estraggono brandelli di verità avariate, ma incontestabili e raggelanti sul dolore e la morte. Così non è difficile immaginare fra le nuove paradossali professioni quella del suicida su commissione.

La sorpresa (gradita) che ci fa Claudia è nella lingua che usa per raccontarci questa storia, che non rinuncia al colore, non si abbandona a fruste distopie o insegue la retorica di certo trombonismo antropocenico; è un modo di scrivere disinvolto ma accurato nelle gustose scelte lessicali, che funziona sempre ed è cifra dei grandi autori di commedie brillanti (Wilder?) o tragicomici (Villaggio, Allen?).

Personalmente ho trovato la lettura di “Bim Bum Bam Ketamina” coinvolgente e disturbante; mi ha dato una vertigine assimilabile a quella che provai la prima volta che ascoltai “Birthday” degli Sugarcubes.

Sul mio volantino d’invito alla lettura di questo innovativo e sconcertante volume, perciò scriverò:

La catabasi inizierà direttamente all’apericena; il Mesto Mietitore (il Signor Mesto) verrà invitato a prender posto al desco dei neodefunti con tutti i riguardi e scendendo in cantina per prendere un Riesling, si faccia attenzione a non calpestare il Radiato gigante con i tentacoli che colà risiede; verrà servito finger food rituale da gustare nell’attico meneghino zona Duomo quando la nube tossica lampeggerà e oscurerà il Sole del tramonto, dopodiché gli hipster con la bamba avranno modo di defilarsi in panico composto poco prima dell’arrivo della madama.

Edizione esaminata e brevi note

Claudia Grande (Chieti, 1990) lavora in Rai Pubblicità come copywriter e content creator. I suoi racconti sono stati pubblicati sulle riviste Frankenstein Magazine e L’InquietoBim Bum Bam Ketamina è il suo primo romanzo.

Claudia Grande, Bim Bum Bam KetaminaIl Saggiatore