Silvio D’Arzo è uno degli eteronimi coi quali Ezio Comparoni ha scelto di firmare i suoi scritti. Un nome che, nel mondo della letteratura, riecheggia e sfugge allo stesso tempo. Uno scrittore morto troppo giovane, a soli 32 anni, nel 1952, per una forma di leucemia. “Casa d’altri” è stata considerata la sua opera più riuscita, quella che tanti critici hanno giudicato perfetta. Di “Casa d’altri” esistono almeno tre diverse stesure perché D’Arzo ha rielaborato in continuazione il suo lungo racconto. Leggerlo, a 70 anni di distanza dalla prima uscita, rimane un’esperienza magnifica. Uno degli aspetti che mi ha colpito di più è stato l’impianto metrico che Silvio D’Arzo ha rispettato nello scrivere “Casa d’altri”, una cadenza sillabica precisa, musicale, ritmata. Le frasi brevi e la punteggiatura rigorosa permettono di scandire il testo quasi come fosse un poema in prosa.
Eppure a uno stile così metricamente studiato e classicamente armonioso, corrisponde la leggerezza e la freschezza di uno scrivere immediato e vivo che fa di D’Arzo uno dei primissimi autori realmente moderni del Novecento. “Casa d’altri” è un universo fatto di colori lividi, paesaggi desolati, solitudini antiche: “L’aria intorno era viola, e viola i sentieri e le erbe dei pascoli e i calanchi e le creste dei monti: e in mezzo all’ombra, lontano, vedemmo scendere al borgo quattro o cinque lanterne“. L’io narrante ha un corpaccione da Falstaff e un’anima radicalmente disincantata. È un vecchio prete, un uomo col cuore amaro ma dagli atteggiamenti ironici e graffianti di chi ha trascorso la sua esistenza tra i monti ostili dell’Appennino emiliano tra gente che non dice ma osserva e sa e giudica.
“Qui non succede niente di niente. E neppure a Braino, vedrete. E neppure in tutta quanta la zona fino quasi alla valle. Gli uomini sono ai pascoli, adesso, e non tornano prima di notte: qualcun altro sta verso le torbe, e le donne a far legna qua e là. Se vi affacciate un momento in istrada, tutt’al più riuscirete a trovare una vecchia a soffiar sul fornello. Sempre che abbiate fortuna… O una capra. Magari anche solo una capra“. Le persone a Montelice vivono e basta. Poi muoiono. Niente di più, niente di nuovo, in fondo. E non succede niente. “Solo che nevica e piove. Nevica e piove e niente altro“. E la gente “se ne sta giù nelle stalle a guardare la pioggia e la neve. Come i muli e le capre. Così“. La vita delle persone e delle capre s’assomiglia, in fin dei conti. E per il prete non c’è altro.
Una sera di ottobre, quando “la tristezza di vivere sembra venir su assieme al buio e non sapete a chi darne la colpa: brutt’ora“, il prete/Falstaff vede una donna al fiume: “china a lavar biancheria o stracci vecchi o budella o qualcosa di simile“. Tutto è triste attorno a quell’immagine di vecchia: “anche i sassi a quell’ora eran tristi, e l’erba, ormai di un color quasi viola, era ancora più triste. E lei sempre laggiù, china sopra i lastroni di pietra. Affondava nell’acqua gli stracci, li torceva, sbatteva e via ancora. E senza fretta o lentezza: così: e senza mai alzare la testa“. Il prete non conosce la vecchia ma, alla fine, cerca almeno di sapere chi è. Lei è Zelinda che non frequenta la chiesa, non parla con nessuno e tira avanti come può. Poi la vecchia decide di andare dal prete. Ha una domanda per lui.
Il prete si anima perché sa che dietro a quello che la vecchia gli chiede non può esserci solo quello che la vecchia gli chiede. In lui la brama di sapere e di capire si fa pressante. Si risveglia nel suo animo assopito da troppo tempo un misto di frenesia e ossessione: finalmente i suoi giorni uggiosi e sterili assumono una piega nuova. Ha bisogno di conoscere (e chi legge con lui) quale sia il mistero di Zelinda, cosa voglia realmente. La domanda vera, però, tarda ad arrivare e la tensione narrativa cresce. E anche qui sta il talento di chi sa scrivere: creare un parallelo sentire tra il personaggio del libro e il lettore. La perfezione di “Casa d’altri” è anche in questo. La rivelazione da parte di Zelinda ci sarà alla fine, questo è ovvio. Eppure al cospetto di certe domande ci si accorge che le risposte non arrivano, non possono farlo. Le parole utili, quelle spinte su dal nucleo più puro di sé, non arrivano, non si muovono. Le parole, certe volte, si schiantano e basta, diventando resa e silenzio.
Edizione esaminata e brevi note
Silvio D’Arzo è uno degli eteronimi dello scrittore, poeta e saggista Ezio Comparoni, nato a Reggio Emilia il 6 febbraio del 1920 da Rosalinda Comparoni e padre ignoto. L’assenza di una figura paterna ha segnato la vita dello scrittore ma ha permesso la crescita di un legame fortissimo con la madre. Nel 1941, Ezio Comparoni ottiene la Laurea in Lettere presso l’Università di Bologna con una tesi di glottologia sul dialetto reggiano. È autore di numerosi racconti, tra i più significativi della letteratura novecentesca italiana. Nel 1942 esce il suo unico romanzo, “All’insegna del buon corsiero”, pubblicato da Vallecchi di Firenze. Il suo racconto più noto e apprezzato è “Casa d’altri” pubblicato nel 1953, dopo la sua morte. Ezio Comparoni, infatti, scompare il 30 gennaio del 1952 malato di leucemia. Aveva 32 anni. Tra i suoi scritti ricordiamo: “Maschere, racconti di paese e di città” (1935); le poesie “Luci e penombre” (1935); “Essi pensano ad altro” (1976); “Penny Wirton e sua madre” (1978).
Silvio D’Arzo, “Casa d’altri“, Garzanti, Milano, 2023. Postfazione di Alberto Casadei.
Pagine Internet su Silvio D’Arzo: Wikipedia / Treccani / Pangea
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