Paradossalmente il fatto che un accademico come l’anziano Renato Barilli, perennemente distruttivo nei confronti di quello che definisce il “mainstream letterario”, nemmeno abbia azzardato un’autentica stroncatura del romanzo di Paolo Mascheri, “L’albero delle farfalle”, ma di fatto si sia limitato ad esprimere delle riserve; ed addirittura a scrivere – in tutta evidenza a denti stretti – “eppure non ci sono ragioni per dirne male, non riesco perfino a distanziarlo da un autore di sommo prestigio quale il francese Houllebeck”, potrebbe essere interpretato come un grande elogio. Elogio che invece a molti lettori non accademici molto probabilmente verrebbe spontaneo, non fosse altro che “L’albero delle farfalle” a stento potrebbe venire compreso come un “mainstream” alla stregua dei più noti ma meno capaci campioni di incassi.
Paolo Mascheri, dopo l’esordio letterario nel lontano 2003 con i racconti di “Poliuretano” e ”Il gregario” (2008), suo primo romanzo, dopo un silenzio di ben tredici anni è tornato alla forma romanzo per raccontarci una storia che colpisce profondamente sia per un linguaggio rigoroso, mai sopra le righe, sia per la vicenda che altrimenti diversi romanzieri più celebri (ma meno capaci) avrebbero affrontato con un eccesso di patetismo e con alte dosi di ruffianeria. Vicenda che è davvero drammatica e che tutti possiamo intuire avere molto di autobiografico. Riccardo è infatti un medico di famiglia molto particolare: sostanzialmente disinteressato alla propria carriera, ben più coinvolto dall’idea di realizzare un giardino esotico nell’entroterra toscano, è legatissimo alla madre Costanza, insegnante in pensione, donna da sempre coraggiosa e anticonformista. Coraggio che sarà messo a dura prova: fin dalla prima pagina del romanzo scopriamo che Costanza è affetta da un grave tumore; e di conseguenza tra madre e figlio si rinsalda più di prima un rapporto mai venuto meno. Riccardo in qualche modo dovrà temporaneamente mettere in secondo piano sia la sua nuova famiglia, sia il rapporto con il padre, da sempre troppo preso dalla sua carriera, intento a supportare in tutto una madre quasi refrattaria a seguire un percorso di terapia: “E a volte le capitava di pensare che tutte quelle attenzioni verso la sua malattia contenessero una sorta di desiderio di normalizzarla, come se il figlio, attraverso quella disciplina di affetto, volesse trasformarla in una di quelle donne sempre attente a tutti i sintomi e sempre in fila per fare qualche controllo, o semplicemente in una donna più ordinata” (pp.71).
Rapporto oppresso dalle visite mediche, da speranze che si trasformano in delusioni, ma che si allarga a quei ricordi del lontano e del recente passato che mettono tutti di fronte alle domande cruciali della propria esistenza: “Non sapeva dire se credeva o meno in un’entità superiore ma poteva affermare che credeva nei defunti e pensava che la loro evocazione fosse in grado di stendere una protezione sulla sua vita e su quella dei suoi cari” (pp.74). Esistenza che, dopo l’epilogo inevitabile, in un certo senso si rinnova nel ricordo e nella passione comune di madre e figlio verso la botanica, come quando, per ben due volte, viene citata una frase di Costanza: “Non mi piace chiamarla buddleia, preferisco l’altro nome: albero delle farfalle, gli aveva detto Costanza mostrandogliela il giorno della PET. Ho rubato un rametto dalla recinzione di una casa” (pp.160).
Passioni comuni che negli anni hanno cementato l’affetto madre-figlio: “Tuttavia era disquisendo della vita delle piante e dei fiori e della flora locale che entrambi si rilassavano, ovvero spostando l’attenzione dalle preoccupazioni del presente verso le preoccupazioni del mondo vegetale. Quando Riccardo era bambino, a volte, Costanza per farlo ridere, mentre si trovavano insieme ad altre persone, cominciava a parlargli in una lingua che non esisteva e lui, ridendo sotto i baffi e trattenendosi, le rispondeva in una lingua che non esisteva. Il nostro esperanto. Il mio e il tuo […] Non inventiamo più parole strane e confuse ma parliamo ugualmente il nostro idioma” (pp.36).
“L’albero delle farfalle” – possiamo affermarlo senza alcuna esitazione – si è rivelata una lettura malinconica e toccante, ricca di caratterizzazioni trattate con estrema sensibilità, col pregio ulteriore che Paolo Mascheri è riuscito a raccontarci la triste vicenda di una morte annunciata senza trasformarlo in un semplice esercizio di sentimentalismo. Ovviamente, vista la carenza di autori di rango, con la speranza che Paolo Mascheri torni alla letteratura, a un altro romanzo, oppure a una nuova raccolta di racconti, senza farci attendere altri tredici anni.
Edizione esaminata e brevi note
Paolo Mascheri, (Umbertide, 1978). Vive in provincia di Arezzo. Ha pubblicato la raccolta di racconti “Poliuretano” (Pendragon, 2004) e “Il gregario (Minimun Fax, 2008), con il quale ha vinto il Premio Perelà.
Paolo Mascheri, “L’albero delle farfalle”, Pequod (collana “Pequod”), Ancona 2021, pp. 163.
Luca Menichetti. Lankenauta, aprile 2023
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