Questo mondo, e per mondo intendo i linguaggi che ci abitano, ha bisogno di definizioni, di classificazioni, categorie, nomi, per potersi ergere a segno arbitrario, che, discriminando e separando, finisce per annichilire quella dimensione profondamente aporetica, originaria, amniotica, che costituisce il fondamento di ogni parola che possa definirsi vivente, cioè poetica. Qui ci giochiamo tutto, è ora di finirla con questa fastidiosa lamentela antivitale e antiartistica: la poesia è inutile, la poesia è incomprensibile, la poesia è vana, la poesia non vende etc. Torniamo semplicemente all’etimo di poesia: dal greco ποιέω che possiamo arrischiarci a tradurre con il temine “creare” se non proprio con lo scolastico “fare”.
Poesia dunque in origine per i Greci è la creazione per eccellenza, l’operare supremo, benedetto da quella che Socrate chiama: “la follia che viene dalle muse”. Follia certo, perché la poesia, per sua natura, non rispetta il principio di non contraddizione della logica aristotelica. La poesia non è un sistema logico, espressione di quella che Leopardi definisce “ragione geometrica” ma una forza di tutt’altro tipo. È il pensiero che si dischiude nell’albore della sua vertigine prelogica, preconcettuale, originaria, aporetica e dunque sacra, se è vero, come scrive Galimberti, che il sacro non è null’altro che l’ambivalenza simbolica per cui una cosa può essere un’altra e poi un’altra ancora, in quella fluttuazione primordiale che anticipa, precede e rende possibile la logica stessa. Come suo irrigidimento concettuale, potremmo dire, ma questo discorso ci porterebbe troppo lontano.
Questa premessa è necessaria per approcciare la silloge di Laura Caccia, ”La terza pagina”, edita da Book Editore nel gennaio 2023, in cui è evidente che la parola poetica s’imponga come luogo di una cancellazione, di un’abrasione del significato, restituito alle sue correnti sotterranee, rinnovato come evento di un’irruzione di orizzonti davvero oltremondani, rigenerato come irradiazione rizomatica. Non abitiamo più la pagina, comfort zone di una letteratura al dissesto, ma la sua ombra. Non si tratta qui, come si dice ingenuamente, di dire l’inesprimibile, convinzione fatua – “epica di indicibile a basso costo”- chiosa l’autrice, ma nella più esatta formulazione di Roland Barthes di “inesprimere l’esprimibile”, cioè , dato che “l’inquietudine dei mondi è carta bianca”, si tratta di restituire alla pagina il suo scolpito e niveo nitore su cui, come zampe di uccello, le parole della poesia s’imprimono, insieme fuggevoli ed eterne. Vuoto e pieno così si possono abbracciare in noi, “principianti del finito” che, in uno “sperpero d’incerto”, inseguono la forma inesauribile e infinita del loro stesso precipitare nella prigione della nominazione.
Così attraverso questa poesia, noi scopriamo che i nomi ci assediano in branco, ”sedotti dal finito”, e la pagina sembra divorarci con la sua “insensatezza carnivora” oppure diventa il luogo in cui divampa e sciama” l’incompiuto”, il “non finito”, attraverso le “mille morti” e le “mille porte” che ne costituiscono sia la soglia di accesso che l’alfabeto segreto. Le voci affiorano con “grammatiche di fango”, la pagina è “inesistente “perché “mai chiusa mai conclusa”, non si lascia riempire perché ogni nome non fa che raccontare del nostro esilio, ora che “la pagina attende i suoi popoli insonni”, insieme “aliena” e “madre”.
Tutto ciò accade nel “retroterra” della pagina stessa, dove “un’antivoce” si aggrappa ai suoi bisbigli, “tralci d’enigma”, e per noi “malati di finito”, come già aveva visto e scritto Guido Ceronetti, “non resta che fare dei fogli precipizio”, dove i nomi collassando annunciano il riemergere di un’antica aurora. La dimensione originaria pare essere quella del vuoto, “che i vivi addomesticano”, come addomesticano l’ignoto; vuoto inteso non tanto come dolorosa mancanza, come funesta spoliazione di sé ma come possibilità generativa dei linguaggi, in cui siamo esposti a “nomi senza mondo” e a nudità e sillabe inaudite, che ci rendono incerti “sul numero di morti che riusciamo a tollerare”. Il linguaggio di Laura Caccia è spezzato, non da un grido sepolto come nel caso di Marina Cvetaeva ma da una sorta di pudore, come se l’atto di nominare il silenzio, di definire dunque l’essere, fosse di per sé osceno, perché “noi siamo in ciò che non nominiamo”, e il suolo in cui germoglia ogni significazione non è una patria, sebbene falsamente si faccia credere tale; le “terre d’inchiostro” sono luoghi di alienazione e di esilio; le “mille voci” di cui siamo composti sciamano sulla pagina; nella penombra del non detto si celebra e si manifesta il vortice di tutti i significati, divenuto inesplicabile nodo di Gordio. Così abbiamo l’ennesima conferma: il poeta non parla, dice e la sua dizione enigmatica è fondata sull’essere e non su ciò che dell’essere si racconta. Per quel che penso, è la fine di ogni ontologia. Una frase affolla la mia mente, sin dall’adolescenza, con i suoi echi logici, gloriosi e sinistri: “Omnis determinatio est negatio”.
In questi versi si sente ovunque quello che Manlio Sgalambro in un’intervista definì “il nocciolo duro della poesia”, che è il magma infuocato, l’apeiron indifferenziato e indistinto che è all’origine del pensiero reale e non della sua eco astratta e concettuale, che invece è pura Doxa, elaborata a partire da quell’eclissi dell’essere che Heidegger mette così bene in luce.
Così fra “fonemi randagi”, in una sintassi di folgore, il poeta abita il doppio della pagina, dove scava e precipita e fa precipitare il mondo, pagina che è sempre perennemente inespressa, inconclusa, perché inesauribile e imponderabile è quella che Flavio Ermini chiama l’”esperienza poetica del pensiero”.
Rimane da svelare il segreto che cela il titolo della silloge: cosa è “la terza pagina”? Provvede la stessa autrice, in numerosi versi e soprattutto nella prosa che conclude la raccolta: “Possiamo osare scrivere di felicità?”
“Bianca”, “indistinta”, “campo di energia in continua tensione tra la vitalità degli opposti e le connessioni casuali”, la pagina si sdoppia, si triplica, contempla la propria ombra, la propria maschera, lo specchio, fino a diventare quel “foglio scosso da precarietà”, in cui però il poeta cerca di far risuonare l’anelito a un “sentire felice”, per superare “le sofferte antinomie tra pensiero e vita, ragione e passione”, per “trattenere l’origine”, “fecondare i contrari”. Così la poesia di Laura Caccia pensa il desiderio come una radicale “apertura senza limiti alla vita stessa”, “nell’abbandono senza scopo a tutto e a nulla” e infine suggerisce questa via di espansione psichica, di natura direi pienamente eraclitea, al nostro disorientamento contemporaneo di Hollow Men.
Edizione esaminata e brevi note
Laura Caccia, La terza pagina, Book Editore, gennaio 2023
Laura Caccia è nata a Varallo Sesia (1954), abita a Borgosesia (Vc).
Laureata in filosofia presso l’Università agli studi di Torino, con una tesi di estetica, relatore Prof. Gianni Vattimo, segue il laboratorio d’arte di Varallo Sesia con il Maestro Lino Tosi e si dedica per diversi anni alla pittura.
Il passaggio alla poesia avviene con Asintoti (Opera prima, Cierre Grafica – Anterem, 2004, riflessioni critiche di Flavio Ermini e Stefano Guglielmin).
Nel 2012 si aggiudica il Premio Lorenzo Montano per l’inedito con D’altro canto (Anterem edizioni, 2012, riflessioni critiche di Giorgio Bonacini e Stefano Guglielmin), nel 2013 il secondo Premio Renato Giorgi per l’inedito con Versi alveari.
L’astero rosso
La dimora del Tempo sospeso
Anterem
Ettore Fobo,Lankenauta, dicembre 2023
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