Cellotto Alberto

Appendice

Pubblicato il: 17 Maggio 2024

“Le vicende umane però non sono tutto e anzi potrebbero essere niente. Le vicende umane hanno rotto. Chi ci siamo messi in testa di essere? Illusioni, sì, ovvio anche quelle di saper leggere meglio le diverse esperienze o opere di un’epoca, ma portano risposte meno arroganti alla domanda che potremmo sintetizzare così: che ci facciamo qui?” (pp.135). Queste le parole di un cinquantenne di cui ignoriamo il nome che, col suo diario, ci racconta la sua “appendice” di vita. Appendice probabilmente da intendersi proprio come estremità ma in senso temporale, visto che il cinquantenne avrà i giorni contati e ha deciso di rivelarsi con una sorta di diario.

Un diario, frutto di un esperimento di scrittura dopo ben dodici anni che il cinquantenne non impugnava “una penna per scrivere qualcosa che fosse più lungo di una lista della spesa” e soprattutto fatto “con le date sbagliate e frastornate”. Il motivo è presto detto: l’uomo che fino a poco prima viveva in Canada ha ricevuto la diagnosi di una malattia incurabile. Di conseguenza, come possiamo subito leggere fin dalla prima pagina di questo suo diario così frastornato, è tornato nel suo Veneto dove però non avrà nemmeno la consolazione di finire i suoi giorni in compagnia dei genitori. Morti poco dopo il suo arrivo, dopo essersi lasciato con la moglie Annalisa, si ritrova senza legami, solo. Se non fosse per le presenze sporadiche della signora che gli viene a fare le punture, quella bislacca e in parte inquietante del custode dei “servizi cimiteriali”; e quelle ancor più sporadiche di qualche vecchia conoscenza di oltre vent’anni prima. Una solitudine in parte subita, in parte cercata, che porta il cinquantenne senza nome a volersi rivelare soltanto mediante la scrittura, ma con molte incertezze, senza alcuna apparente convinzione: “Avverto che ciò che scrivo per me è significativo, ma so già che non riuscirò a dimostrarlo a chi legge. Bisognerebbe implorare attenzione, ma come si fa? È scandaloso volere attenzione” (pp.35).

Il diario-appendice prosegue mentre il malato va avanti con il piano di terapie, riuscendo, non si sa fino a quando, a condurre una vita quasi normale tale da permettergli, di volta in volta, a fronte di quanto gli accade intorno, di far riemergere ricordi fino ad allora sepolti. Sembra davvero che tutto quello che vive, anche soltanto l’allungarsi “violento delle giornate di marzo” contribuisca a riaccendere “lampi di memoria più di qualsiasi altro stratagemma o stimolo” (pp.158). Prendono vita quindi brevi scritti, a volte brevissimi, in cui con toni tutt’altro che mansueti, comprensibilmente vengono alla luce mille dubbi, mille ripensamenti.

Ma oltre ai ricordi e alle tante e giustificabilissime elucubrazioni si scopriranno anche molti degli altarini familiari, dalla fine del rapporto con la moglie a seguito della morte di loro figlio, a come sono andate veramente le morti di sua madre e di suo padre, entrambe in paese molto chiacchierate. Tanti pensieri che però non limitano l’azione del cinquantenne malato, sorprendentemente attivo quando azzarda una sessione di nuoto in piscina, oppure quando, pur senza alcuna illusione, inizia a frequentare una bella e giovane bibliotecaria.

L’aspetto più significativo del romanzo-diario semmai è l’abbandono, diversamente declinato, tenendo però sempre a mente che il protagonista senza nome vive questa sua appendice di vita con una certa grinta, non priva di una rinnovata diffidenza (basti pensare all’epigrafe da “L’incontro” di Piero Ciampi: “perché anche tra noi due l’attesa è sacra e la diffidenza necessaria”). E quindi, visto che il suo momento di abbandono non risulta affatto assillante, una rinnovata voglia di testimoniare, di scrivere non tanto della sua fine vita, quanto di argomenti molto terreni, spesso con un registro veemente: “Ho sempre trovato istruttivo fra l’altro osservare le bancarelle dei libri fuori catalogo: alcuni lo sono con merito, mentre altre opere sono fuori catalogo perché la gloria che proteggono sta percorrendo un rivolo deviato, non certo perché sfuggono alle maglie di quella stronzata di costrutto che fu il canone letterario. Uso fu dal momento che confido che il canone, dopo cotanta fioritura, sia andato per sempre a farsi fottere” (pp.32).

Di sicuro “Appendice” è un’opera che, nella sua complessità, risponde in pieno ai propositi della collana “VentoVeneto”: “originalità”, “luogo di ibridazione tra generi” e “animato da uno spirito di trasversalità”.

Edizione esaminata e brevi note

Alberto Cellotto, (Treviso, 1978) ha pubblicato i libri di poesia Vicine scadenze (Zona, 2004), Grave (Zona, 2008), Pertiche (La Vita Felice, 2012), Traviso (Prufrock spa, 2014), la plaquette illustrata da Nicolò Pellizzon I piani eterni (La collana Isola, 2014), Pechino (2019), Non essere (Vydia, 2019) e La decenza comune (Pordenonelegge/LietoColle, 2020). Ha tradotto Duluth di Gore Vidal (Fazi, 2007), Canzoni per la scomparsa di Stewart O’Nan (Fazi, 2011), Una speculazione sul grano di Frank Norris (Amos Edizioni, 2012) e alcune poesie di Matthew Sweeney su Testo a fronte 53 (Marcos y Marcos, 2016). Il suo primo libro di narrativa è il racconto epistolare Abbiamo fatto una gran perdita (Oèdipus, 2018).

Alberto Cellotto, “Appendice”, Ronzani editore (collana “VentoVeneto”), Dueville 2023, pp. 167.

Luca Menichetti. Lankenauta, maggio 2024