Tre rigorose gabbie formali per tre storie gaudenti, gioiose e spensierate come la giovinezza: i racconti alfabetici contenuti in questo libro narrano le vicende erotiche di due instancabili studenti, un bucolico e voluttuoso convegno fra soldati, l’incontro fortuito tra un benzinaio, un oroscopo amoroso e un audace camionista quebecchese. Le parole si piegano all’abilità dell’autore, che si muove con agio nelle sue contraintes autoimposte – alla maniera oulipiana – in perfetto equilibrio tra sensualità e ironia. L’esercizio di stile coincide con il divertimento e si fa sinonimo di raffinata intelligenza. AcroBatiCa è un gioco di lingua.
In occasione dell’uscita di AcroBatiCA, edito da declic edizioni, abbiamo avuto il piacere di porre qualche domanda all’autore, Ezio Sinigaglia.
Caro Ezio, ti ringrazio per aver accettato di rispondere ad alcune domande su AcroBatiCa, tre testi che sono tre perle stilistiche, giudizio su cui converranno tutti i tuoi lettori.
Ti chiedo innanzitutto a quali anni risalgono questi testi oggi proposti da déclic e come possiamo collocarli all’interno della tua produzione…
Questa è proprio una domanda simpatica, perché mi permette di rivelare che Eclissi non è la sola cosa ch’io abbia scritto in tarda età. Il primo di questi racconti, Smanettando sospirosi, lo cominciai nel 2005, ne scrissi poche pagine e lo lasciai lì come uno dei miei tanti incompiuti. Lo ripresi diversi anni dopo, nel 2009 o 2010, e lo portai a termine in poche settimane. Il secondo, Incantevole habitat, risale al 2013 e il terzo, Oroscopi, al 2015. Considerando l’età media della mia produzione, questi tre racconti si possono dunque considerare giovanissimi, il loro autore vecchissimo.
Forgiare in questo modo la lingua deve aver richiesto molto lavoro… Immagino che ci siano state tante redazioni e un gran numero di revisioni prima di giungere a una versione definitiva.
Per la verità in casi come questo il lavoro si svolge tutto in fase di stesura: è lì che si passa mentalmente in rassegna il vocabolario per trovare la serie di parole con cui proseguire, è lì che si individuano immediatamente le soluzioni scadenti e si riscrivono magari tre o quattro righe consecutive: proprio appena dopo avere scritto e cancellato quelle condannate. Una volta conclusa la stesura, si può dire che quel che è fatto è fatto. Il vincolo della lettera iniziale, che può essere una e una sola, rende quasi impossibili i rifacimenti parziali di un certo peso. Si può sostituire una parola che comincia per P con un’altra che comincia per P, o tutt’al più due parole consecutive, P-Q o P-O. Il vincolo autoimposto si estende in pratica dal lavoro di scrittura a quello di revisione, condizionando il primo e paralizzando il secondo.
In occasione dell’uscita del volume hai apportato ulteriori modifiche rispetto ai testi originari?
No, ho dovuto semplicemente tener conto delle norme redazionali per segni di punteggiatura, maiuscole, corsivi e simili. Poi naturalmente ho riletto con attenzione estrema il secondo e il terzo racconto, per verificare che non ci fossero salti o ripetizioni o errori nell’ordine alfabetico delle iniziali delle parole. Per il primo racconto, dove l’iniziale è sempre la stessa, S, questo controllo è enormemente più facile e può essere effettuato anche con gli automatismi di Word.
C’è una dipendenza diretta da alcuni testi dell’Oulipo o dell’Oulipo hai condiviso solo le intenzioni, le idee programmatiche, che ti hanno indotto a spingere così avanti la tua ricerca sulla lingua?
L’esperienza dell’Oulipo e della sua filiazione italiana, l’Oplepo, mi ha certamente incoraggiato, suggerendomi che la mia antica passione per i giochi linguistici poteva attingere a una sua dignità letteraria. Già dagli anni Settanta-Ottanta del secolo scorso seguivo il lavoro di Giampaolo Dossena, e più tardi quello di Stefano Bartezzaghi, su questi giochi, considerati come un aspetto nobile dell’enigmistica. Mi divertivo fin da allora a esercitarmi a scrivere cose apparentemente assurde, come un testo il più breve possibile che contenesse tutte le lettere dell’alfabeto, o una frase palindromica, leggibile cioè tanto da sinistra a destra quanto da destra a sinistra, o altri testi, invece, il più lunghi possibile, in cui fosse proibito l’uso di una lettera dell’alfabeto (la E, ad esempio), e altre simili stranezze. Poi, quando nel primo decennio del Duemila ho tenuto dei corsi-laboratori di scrittura (non “scrittura creativa”, ma scrittura pura e semplice) alla Bicocca, scelsi di inaugurare ogni laboratorio con un incontro dedicato a questi giochi, così da offrire a gruppi di studenti che avevano difficoltà a scrivere, e consideravano la stesura della propria tesi una specie di condanna ai lavori forzati, una visione diversa e un po’ ludica del lavoro di scrittura. È in questo clima che è nata l’idea del primo racconto, tutto in S. Vedendo che riuscivo a ottenere buoni risultati, ci ho preso gusto.
Sempre tenendo presente l’esperienza dell’Oulipo, quanto è importante, a tuo avviso, lavorare sul potenziale della letteratura e con le restrizioni che permettono la sua emersione?
Ruggero Campagnoli, in più punti delle sue pagine critiche sull’Oulipo, afferma che “perché ci sia letteratura, bella o brutta che sia, (…) ci vuole un tipo particolare di restrizione. Ci vuole una restrizione che produca il senso, non che lo costringe entro limiti precisi”. Sei anche tu di questo avviso?
Forse fino a un certo punto sono d’accordo, ma non mi è ben chiaro che cosa intenda dire Campagnoli quando scrive “Ci vuole una restrizione che produca il senso”. La restrizione, anzi, le innumerevoli restrizioni che un poeta deve imporsi per scrivere un sonetto, producono forse necessariamente un senso? a me non sembra: eppure producono “letteratura, bella o brutta che sia”: infatti si possono scrivere sonetti sublimi e sonetti pessimi, ma saranno sempre considerati letteratura. Mi domando: perché l’obbligo dell’endecasillabo, l’obbligo dello schema di rime ABBA per le due quartine, l’obbligo di precise, anche se più libere, relazioni fra le rime delle due terzine producono necessariamente letteratura, bella o brutta, mentre l’obbligo di non usare la lettera E o di scrivere solo parole che cominciano per S non sarebbe in grado di produrla? Ripeto: non mi è chiaro. D’altra parte è pur vero che io, accanto agli obblighi rigidissimi legati alle iniziali delle parole, mi sono imposto in questi racconti altre restrizioni, cioè altri obblighi: (1) che ciascuno di questi racconti narrasse una storia, per esile che fosse, (2) che il protagonista di ciascuno di essi sperimentasse un’evoluzione e (3) che in ciascun racconto brillasse almeno un’invenzione strutturale o narrativa che aprisse la strada all’umorismo (nel primo l’insolita natura del narratore, nel secondo le comodità da “grand hôtellerie” create da Zanella e da lui stesso battezzate “zanellismi”, nel terzo gli oroscopi per motociclisti). Con queste ulteriori restrizioni potrei avere ottenuto, secondo Campagnoli, l’effetto di produrre senso?
Sei sempre stato un abilissimo fabbro nel tuo lavoro con la lingua, lo testimoniano i romanzi e i racconti che abbiamo avuto la fortuna di leggere negli ultimi anni. Io leggerei questi tre ultimi testi dati alle stampe nel segno della continuità o per lo meno della coesistenza con quelli “regolari”.
Sono perfettamente d’accordo: il piacere di giocare con la lingua è ben presente e riconoscibile in tutti i miei romanzi e i miei racconti: basti pensare al Pantarèi, all’Imitazion del vero o ai dialetti, spesso in gran parte inventati, che fioriscono nella seconda parte di Fifty-fifty e nei racconti dell’Amore al fiume. D’altronde, anche in questi tre raccontini, che sono senz’altro la cosa più ludica ch’io abbia mai scritto, la preoccupazione di giocare sì, ma non troppo, cioè non a scapito della narrazione, è a sua volta ben presente. Vorrei che nei miei libri queste due linee di forza, ricerca linguistica e corrente narrativa, apparissero al lettore sempre in una relazione di buon equilibrio reciproco, così da rendere la lettura un’esperienza mai noiosa.
Ritroviamo in AcroBatiCa temi a te molto cari, primo fra tutti l’amore omoerotico. C’è del resto qualche elemento che accomuna il gioco erotico e il gioco linguistico.
Mi sembra naturale che, dovendo affrontare difficoltà tecniche come quella di scrivere solo parole che comincino per S, o parole le cui iniziali siano in ordine alfabetico (diritto o capovolto), uno scrittore senta la necessità di semplificarsi il lavoro scegliendo almeno i temi e le ambientazioni con cui si destreggia più facilmente. Aggiungerei che in tutti e tre i racconti si arriva all’amore omoerotico dopo una lunga pratica di quello solitario che, accanto alla letteratura in generale e a quella ludica in particolare, è uno dei pochi mezzi che ciascuno di noi ha a sua disposizione per modificare la realtà a proprio beneficio. La fantasia è la medicina più salvifica che esista.
Toglimi una curiosità: in Smanettando sospirosi sulla station hai scelto la S perché è l’iniziale del tuo cognome, oppure è un omaggio al Sì avverbio che ricorre molte volte e che allude così bene al piacere di un atto sessuale che si conclude nel migliore dei modi?
Se si ha in animo di scrivere un tautogramma di questa lunghezza, la scelta fra le lettere dell’alfabeto che vi si prestano è alquanto limitata. A meno di essere inclini a usare uno stile “telegrafico” come quello dei titoli di giornale di una volta, dove tutti i nessi grammaticali (articoli, preposizioni, avverbi-preposizioni come “senza”, “dopo” e simili) vengono eliminati, occorre scegliere una lettera che ne contenga qualcuno. Un’ottima lettera è sicuramente la A, sulla quale ho fatto qualche esperimento, altre due favorevoli potrebbero essere la C e la I, o anche la D, che però non ha un vocabolario particolarmente ricco. Io ho scelto la S perché possiede una preposizione (“su”) e tutti i suoi accoppiamenti con gli articoli, un piccolo tesoro di avverbi con funzione di preposizione (specialmente “senza”, “sopra”, “sotto”) e, soprattutto, la particella pronominale “si”, che mi è stata preziosa in misura inestimabile. È stata una scelta sicuramente molto più utilitaria che simbolica o a chiave.
Oserei dire che in Smanettando sospirosi sulla station è evidente il registro colloquiale, il gergo giovanile, anche piacevolmente scurrile, molto più di quanto si legga nei testi precedenti, dove pure hai fatto sfoggio di grande abilità nella gestione di tanti registri, il che risulta estremamente congeniale alla narrazione delle vicende erotiche dei due ragazzi scatenati.
Certamente in tutti e tre i racconti ho fatto la scelta di un registro basso, capace di accogliere al suo interno qualsiasi tipo di materiale, dall’osceno al poetico se non addirittura al sublime, colorando tutto di comicità. Nel primo racconto la natura speciale del narratore (che è il pene, o per usare un termine polisemico, il sesso di Simone) mi ha permesso di dare la voce a un personaggio che – potremmo ben dire – ha il sesso in testa (e in ogni parte del corpo!), proprio come gli adolescenti protagonisti del racconto. I due ragazzi, con la loro fissazione erotica, le loro paure e le loro avventurose audacie, potrebbero appartenere a qualsiasi epoca della modernità, anche se la presenza – più che altro teorica e semanticamente ambigua – della “station” restringe un po’ il campo dal punto di vista cronologico. Perciò ho cercato di dar loro un gergo da adolescenti, leggero e incline all’osceno, senza però connotarlo in modo particolare. Del resto bisogna pensare che tutto è filtrato dalla sensibilità e dall’etica del narratore, questa “testa di cazzo”, se così mi posso esprimere, dotata di un’intelligenza sorprendente e di una certa paradossale moderazione moraleggiante. Il narratore, si sa, è sempre inaffidabile, ed è quindi probabile che il linguaggio dei due ragazzi sia molto più sboccato di quanto lui non osi riferire.
Incantevole habitat: garantita favolosa esclusiva esibisce un’evidente parentela con L’amore al fiume e con il secondo volume di Fifty-fifty…
Come dicevo prima, ho scelto temi e ambientazioni ben conosciuti, che mi facilitassero il compito. Inoltre in questo racconto mi sono divertito a creare un secondo bersagliere Zanella che, avendo qualche anno in più dell’incantevole Mao, ha affinato nel tempo e reso più complesse (più macchinose, direi) le sue armi seduttive, puntando però sempre sulle conquiste più difficili e ottenendo comunque gli stessi mirabolanti successi.
Quanto è difficile conciliare le esigenze narrative-diegetiche con le contraintes autoimposte? Quanto la gabbia autoimposta può incidere sullo sviluppo e sull’esito della narrazione?
Lo scopo della contrainte è stimolare la creatività dello scrittore, costringendolo a inventarsi soluzioni lessicali, grammaticali e sintattiche cui altrimenti non avrebbe mai pensato. È chiaro perciò che il vincolo, o l’insieme dei vincoli, incide fin dall’inizio sul testo, che non esisterebbe in sua assenza. Nel caso dei miei racconti, la contrainte che potremmo chiamare “acrostica”, cioè dell’iniziale obbligata, è venuta a intrecciarsi con gli altri tre obblighi che mi ero imposto e che ho enumerato prima (narrare una storia, far subire al suo protagonista un’evoluzione, esplorare senza tregua il registro umoristico) ed è quindi difficile dire, a mio parere, quale dei due vincoli (quello acrostico o quello strutturale-narrativo) abbia più imposto all’altro le sue esigenze. Certamente il vincolo dell’iniziale obbligata ha condizionato la scelta dei vocaboli, questo sì, e anche la scelta (nelle due “scale alfabetiche”) di alcuni nomi di persone e di oggetti che servissero a rendere meno vistose le difficoltà imposte dall’H e dalla Z: il nome di Zanella in Incantevole habitat, quello di “Giovanni, Hans in lingua madre” e della rivista di motociclismo Zentaur in Oroscopi costituiscono, credo, tre esempi significativi.
Un’altra, l’ultima, curiosità. I tre testi hanno la stessa lunghezza, venti pagine l’uno tonde tonde, non una di più né una di meno. Non può essere un caso. C’è un qualche motivo a noi sconosciuto all’origine di questo aspetto?
Non è certamente un caso che i racconti abbiano una lunghezza analoga. Questa è una scelta precisa. Ho pensato fin da subito che testi così bizzarri potessero divertire o almeno intrattenere il lettore soltanto per una quindicina di pagine (tante erano nel formato originale, quello della pagina-standard delle cose che scrivo sul pc: sono poi diventate venti grazie al particolare formato del libro). È invece un caso fortuito, non ricercato in partenza, che i tre racconti siano risultati alla fine di lunghezza così simile: sempre più di 26.000 caratteri e sempre meno di 27.000. Una ciambella riuscita con un buco fin troppo perfetto.
Un plauso dunque a déclic, editore coraggioso, che ha fatto della ricerca e della pubblicazione di opere ibride, sperimentali, devianti, inclassificabili, la sua ragion d’essere.
Verissimo: déclic è l’editore più matto che ci sia in circolazione, il più lontano dalle mode editoriali imperanti, e sono molto contento di aver pubblicato con lui questi tre racconti, sicuramente i più matti della mia già piuttosto insana produzione.
Edizione esaminata e brevi note
Ezio Sinigaglia, AcroBatiCa, Declic 2024, 80 pp.
Ezio Sinigaglia (Milano 1948) ha alle spalle una lunga esperienza di collaboratore editoriale e copywriter. La sua opera prima, Il pantarèi, uscì nel 1985 per un piccolo editore milanese (SPS, poi Sapiens). Dopo oltre trent’anni di silenzio, e dopo il successo di Eclissi (Nutrimenti, 2016), romanzo breve di ambientazione nordica, ha riproposto Il pantarèi nella collana Fondanti dell’editore TerraRossa, che ha poi pubblicato via via, nella collana Sperimentali, i suoi inediti: L’imitazion del vero (2020), il dittico Fifty-fifty (2021-2022), Sillabario all’incontrario (2023) e Grave disordine con delitto e fuga (2024). Per Wojtek ha dato alle stampe, nel 2023, la raccolta di racconti L’amore al fiume (e altri amori corti). Come traduttore si è cimentato con Julien Green, Marcel Proust, Charles Perrault, Boileau-Narcejac, Pierre Klossowski.
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