“Quando mi trovo a contatto con la poesia provo un freddo così intenso che penso nessun fuoco potrà mai più riscaldarmi. “
Emily Dickinson
La parola poetica non cessa di aprirsi, come una valva, a risonanze, non cessa di tradire l’istante della comunicazione e recuperare la dimensione pura del silenzio, laddove la musica può espandersi elusiva e diventare lo scoglio su cui s’infrangono apoftegmi riluttanti a essere scolpiti nella pietra. Perché in questa silloge di Maria Grazia Insinga, A sciame edita nel settembre 2023 da Arcipelago Itaca, sin dalla prima sezione, intitolata “La stanza dell’acqua”, è proprio questo elemento che sembra dominare la pagina – scena, luogo dove si celebra la sua inafferrabile essenza, la sua fluidità, la sua proteiforme natura. Perché l’acqua è origine, da essa proviene la vita, e nell’amnio di questa scrittura fluttua con eleganza e leggerezza.
Quella di Maria Grazie Insinga è una poesia che s’insinua proprio come acqua fra gli interstizi fra senso e suono, elaborando uno spartito in cui essi collidono per sprigionare le forme cristalline di questo linguaggio la cui fascinazione dura ben oltre il tempo della lettura, scavando nella memoria, per affermare la propria natura di evento oltre le colonne d’Ercole del Significato, inteso come macchina dispotica ed egemone.
È una scrittura avvolgente, definita “spiraliforme”, nella precisa prefazione di Giuseppe Martella, che, in quanto potentemente scritta, fino ai nuclei essenziali della propria scaturigine, non lascia trasparire il lavorio che la rende così duttile e la apre al mistero, all’incanto, allo stupore.
E se la poesia ignora il principio di non contraddizione, qui il gioco delle metafore è un segreto inno alla metamorfosi e alle sue potenze, innesta sulla carne del mondo il suo carillon ipnotico per la danza di significanti che però paiono sganciati dal Significante assoluto, per sciamare appunto come pulviscolo cosmico nelle galassie sommerse del non detto. Perché come scrive Larkin “è più l’ignoto del noto, più il lontano del vicino”, se ricordo bene la citazione. Nulla d’indicibile, però, lasciamolo agli ingenui, la parola può tutto, essendo tutto ma bisogna intendersi su questa affermazione. Perché non è la parola discorsiva che può tutto ma quella che si conosce come esito di un processo inconscio di cui essa non è che la scoria. Così A sciame colpisce proprio per questa irradiazione che frammenta il reale fantasmatico della prosa, cioè di quel chiacchiericcio che ci bagna la mente, per ricostituirne, rivelarne, ricostruirne la profonda e originaria unità prelogica.
Sono quindi gli albori musicali del pensiero che Maria Grazia Insinga dissemina in questa partitura con la forza straniante di una delicatezza che però non fa sconti a nessuno, posto che la poesia è proprio quella necessaria, benché invisa, opera di bonifica delle paludi del senso, laddove non scorre musica, non gioisce il silenzio, e solo la melma di una parola asservita – e asservita perché funzionale ai discorsi di quelle che Klossowski definisce “propensioni gregarie”- ossessiona i nostri orizzonti. Maria Grazia Insinga, come tutti i veri poeti, ha riconosciuto in sé stessa il palpito della propria autenticità e lo trasmette in versi di una purezza irriducibile ai cliché della bellezza più stereotipata, cartolinata. Perché c’è sempre un’incrinatura, una crepa, una “crepa-madre” da cui il pensiero può sgorgare sfuggendo ai codici della sua iscrizione in un discorso razionale, ragionevole e dunque anestetizzato e narcotizzato: la poesia, infatti, è bene ricordarlo, è sempre inquietante, terreno che ci frana sotto i piedi, nuvola che non regge il nostro peso, valanga che devasta il focolare delle nostre rassicuranti nevrosi, vento gelido che sferzando la faccia la riscuote e la risveglia. Per questo la musica di questo dettato ispirato è anche tremenda, tremenda della sua bellezza originale e profondamente studiata. E se “il bello non è che il tremendo al suo inizio”, come ci ricorda Rilke, non bisogna lasciarsi ingannare dal tono quieto di una parola che si vuole fragile, si vuole vulnerabile, solo per testimoniare di una potenza musicale che nasce evidentemente da un lacerante studio delle sue dinamiche – Maria Grazia Insinga è una musicista concertista – per far affiorare una sinfonia in cui parola, suono, immagine si confrontano con la loro bizzarra ineluttabilità, s’impongono con levità sulla pagina, come orme di gatta sulla neve. Prezioso il lessico fra incursioni di siciliano (trazzera per tratturo) e lo splendido “zupardo” per triste di cui una frettolosa ricerca su internet non mi ha permesso di appurare l’origine, forse è un termine che viene dal corso; e poi, sempre come esempio, “iancura”, termine che viene dal dialetto eolico per designare quella caligine che emerge spesso dal mare piatto.
Man mano che ci si inoltra nel libro si ha la precisa, a tratti esaltante, sensazione di avere a che fare con qualcosa di incandescente e pericoloso: deflagrazioni del pensiero nel pensiero, fughe sonore di sciami di condensazioni icastiche, spesso sinestesiche, sempre carsiche, come se un’intelligenza sottile sorvegliasse il poeta e lo guidasse a esiti da lui non calcolati, perché un “riso di cranio” tutt’altro che rassicurante ci aspetta sull’argine in cui anche “il nulla non finito” ci assedia, perché, lo mostra Heidegger; bisogna pensare il nulla, per farla finalmente finita con lui. È il compito che il filosofo tedesco assegna all’Occidente intero, Occidente di cui i poeti, ormai ridotti a reietti del limbo, sono le indispensabili antenne.
Leggendo questa preziosa raccolta di Maria Grazia Insinga la sensazione è quella di immergersi in un mare, un mare, finalmente, sconosciuto, poiché “la grazia è solo quando è troppa”, sentenza uscita da una bocca davvero pitica o di mistica cristiana, ma in questo testo si moltiplicano le sentenze gnomiche come “legge senza luce essendo luce”, “la risposta è nessuna domanda”, ” l’esistenza è una supposizione”, “è altissimo il debito di tenerezza”, “sotto di lei è ancora altitudine”; ecco allora emergere sullo sfondo di questa foschia di tenebre ”i dinosauri gli alieni e noi le dee”. La tentazione di estrarre da questo fiume in piene pepite a più non posso è forte, mi limito a questi versi:
“ […]
La sua voce è un richiamo per gli uccelli
e io sono un uccello
una città dipinta la sua schiena
e io sono la città
dice: ha il sapore di lingue
non esistenti sulla terra
lei continua a indietreggiare il mare
scaraventare le nuvole nel fiume
lei bosco salvatico.”
Altra tentazione che va in crescendo durante tutto il libro: la tentazione, che diventa presto una necessità, di recitare a voce bassa questi versi così refrattari a qualsiasi declamazione rigidamente impostata, perché schiumanti di una musica che basta sé stessa. È un paradosso, è il paradosso di una poesia che si voglia, sempre sul solco tracciato da Rimbaud, poesia realmente contemporanea. Poesia contemporanea, e perché no? assoluta come nelle parole di Gottfried Benn, cioè sciolta da ogni vincolo sociale, biografico, psicologico, storico, esistenziale. Pura forma, atto puro, incantesimo universale. Bandito il famigliare, il domestico, il falso focolare delle nostre confortevoli nevrosi; si cerca l’estraneo, il perturbante, l’inaudito, il remoto. Ciò che solo la forma può strappare all’indifferenziato. Poesia contemporanea che esiste fra i lutti di mille deserti e di cui ancora una volta Maria Grazia Insinga si conferma una decisiva interprete, espressione fra le più brillanti di un fermento poetico sommerso ma implacabile che sta attraversando questo addormentato paese.
“duchesca: il mondo a partire dalla scena
era già segnato così invisibile barcollante
inaudito oltremodo primordiale
appena prima della cosa era voce
un lungomai lunghissimo oltremondo
un terreo moto uno sciame un sisma.”
Edizione esaminata e brevi note
A sciame– Maria Grazia Insinga– prefazione di Giuseppe Martella- Arcipelago itaca– settembre 2023
Maria Grazia Insinga (1970) laureata in Lettere moderne, è docente di Pianoforte. Fa parte della giuria del “Premio Lorenzo Montano” e del Comitato di lettura di Anterem Edizioni. Nell’ambito degli studi musicologici censisce, trascrive e analizza i manoscritti musicali inediti del poeta Lucio Piccolo. Idea laboratori di poesia per i giovani: La Balena di ghiaccio, in memoria di Basilio Reale e il Premio Lighea per la Fondazione Famiglia Piccolo di Calanovella. Ha pubblicato: Persica (Anterem, 2015); Ophrys (Anterem, 2017); Etcetera (Fiorina, 2017); La fanciulla tartaruga (Fiorina, 2018); Tirrenide (Anterem, 2020). Alcune poesie si trovano in riviste e antologie: Blanc de ta nuque (Le voci della luna, 2016); Umana, troppo umana (Aragno, 2016); Il Segnale. Percorsi di ricerca (I Dispari, nn. 103, 108, 118, 119); Punto. Almanacco (puntoacapo, 2017); Trivio. Polesìa (Oèdipus, 2017); Il corpo, l’eros a cura di Franca Alaimo e Antonio Melillo (Ladolfi, 2018); Fuochi complici (Il Leggio, 2019); Taccuino della poesia (Giulio Perrone Editore, 2020); Osiris Poetry (A. and R. Moorhead, nn. 84, 90, 92).
Anterem
Astero rosso
L’Estroverso
Ettore Fobo, Lankenauta, gennaio 2025
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