«…tema della memoria – memoria perduta – (è) il conservare e il perdere ciò che si è perduto – ciò che non si è avuto – ciò che si è avuto in ritardo – ciò che ci portiamo dietro – ciò che non ci appartiene…». ITALO CALVINO
«… l’unica posizione che mi interessa è mettere me stesso nel mondo reale, nella realtà, e provocarla, e decidere se distruggerla, cambiarla. Giocare con la realtà. Quello che mi interessa è la vita, questa posizione in cui tutto è possibile, niente è proibito e vietato. Questa posizione mi interessa: quella attraverso cui provocare la realtà…». ANTOINE D’AGATA
Uno scrittore americano naturalizzato francese ed un fotografo francese dalla natura inquieta, indagano, con gli strumenti del Caso, il luogo di molte morti lenite, su cui agisce il nascondimento incessante del trascorrere del Tempo. Un luogo (Baby Yar, periferia di Kyiv e del mondo-nostro, quindi), che viene continuamente trasfigurato in molti altri spazi, in luoghi che sanno prepararsi sia per gli sguardi innocenti sia per quelli colpevoli, e che si ricoprono di luce fuggente, solo per farsi ricordare, ça va sans dire, da una atroce pigrizia.
La storia è nota (sebbene non più annotabile). Questa ne è la miscela documentata: una strage compiuta sulla basi di un programma di pulizia etnica; Il Sodderkommander tedesco di stanza a Kiev al suo massimo zelo; una oblunga mattina di settembre del ’41, quando gli ebrei furono chiamati ad abbandonare le loro case (ma a portare i loro averi), per essere radunati (anche grazie ai collaborazionisti ucraini), fra due ali di soldati nazisti, presso il vecchio cimitero ebraico cittadino: lì, 30.000 ebrei trovarono la fucilazione e i loro corpi gettati in un burrone, poi ricoperto di terra, vegetazione spontanea e monumenti al ricordo (ma questo, solo decenni dopo la fine del secondo conflitto mondiale, con uno sforzo parziale di presa di coscienza collettiva dell’accaduto, da parte delle autorità ucraine). Sì perché l’Ucraina, ci dice Littell, non ha mai davvero iniziato un processo di elaborazione e pentimento per i massacri degli ebrei, condotti anche grazie all’omertoso supporto da parte della popolazione. L’Ucraina ha la stessa malattia della Russia; come la nazione madre, anch’essa è malata, e la sua desovietizzazione sarà molto più difficile in quanto l’antisemitismo ucraino è implicito ed embedded al loro insanguinato NAZIONALISMO. Questa cosa allontana l’Ucraina oggi dall’occidente così desiderato, dove, di contro (Germania in primis) è stato elaborato, nella sua radicalità, l’evento (sovra)storico dell’Olocausto; mentre l’antisemitismo (minoritario ma ancora presente), nei luoghi delle ex provincie sovietiche, ha il volto del nazionalismo più fiero e violento, intransigente ed idealizzato (vedesi la persecuzione ed uccisione dei polacchi sul confine di stato di metà secolo scorso). A tutto ciò fa da chiosa il tipico manicheismo prêt-à-porter dei nostri governi e media.
Mentre scorrono le pagine, si torna spesso al presente; e qui, vi è la cronaca di una invasione, iniziata nel febbraio del 2022, con cui le truppe russe tentarono in poche ore la presa di Kiev, ma furono sbalzate verso la ritirata dalla pugnace difesa territoriale ucraina (TO).
Piani di eventi che si sovrappongono in una carta e il suo territorio, fatto di lacerazioni, crepacci nel terreno a guisa d’improvvisate urne di ossa in cenere, carcasse di auto affastellate contro il cielo grigio, periferie desolate e ospedali psichiatrici fatiscenti (la morte è sempre in periferia; Bucha, come avamposto difensivo, è il quartiere sventrato e violentato dalle truppe russe, dove non resta che rilevare, fotografare e registrare l’insignificante come se fosse l’essenziale da documentare). E poi, ovunque, in numero quasi insopportabile, si vedono stele e monumenti alla memoria di quel singolo caduto o di quei tanti trucidati; si incontrano tra le pieghe del terreno impoverito, in sottovoce, molto più chiare, le tracce di coloro che si consacrano al ricordo momentaneo ed anonimo.
Le pagine di questo resoconto svoltano, nella distanza discreta di una continua nominazione di luoghi, persone, atti di vita e di morte; tutto ha un nome, oltre la visione del qui-e-ora, o più precisamente, tutto (av)viene nominato, come per isolarne e salvarne la testimonianza ermetica, in ogni infinitesimo dolore; per certi versi, come per la lingua della poesia, che è la lingua dell’indistruttibile, anche l’uomo risulta essere, infine l’indistruttibile che può essere infinitamente distrutto, senza per questo, essere eluso: “…è nel nome che la lingua manifesta il suo carattere ontologico: nel nome il mondo viene alla presenza, nel nome l’uomo si apre alla verità del mondo. In esso la parola dell’uomo si apre, prima ancora che alla conoscenza del mondo, all’incontro con il mondo e la sua lingua si svela tutt’altro che semplice strumento per afferrare e impadronirsi di ciò che non ha lingua. Le cose esistono, ma non basta indicarle. Per comprenderle, perché acquistino per noi un significato, siano discutibili, entrino a pieno titolo nella riflessione pubblica e dunque siano oggetto di confronto, e di crescita, occorre che abbiano un nome…” (Zygmunt Bauman)
È quindi nell’attraversamento di una trattenuta discretezza che gli autori incontrano, di volta in volta, volti e storie, case e recinzioni distrutte dai bombardamenti, chiese ortodosse a ridosso del bosco, muri di cinta o cimiteri abbandonati attorno a fosse comuni, per procedere poi, attraverso una lingua apparentemente giornalistica, ma che avanza sempre in direzione del nome (un nome), di un approdo che non discorre e non informa neanche, ma ostinatamente nomina e chiama.
Edizione esaminata e brevi note
Jonathan Littell nato a New York il 10 ottobre 1967 è uno scrittore statunitense naturalizzato francese. Attualmente vive a Barcellona. Nato in una famiglia di origine ebraica, emigrata dalla Polonia negli Stati Uniti alla fine dell’Ottocento, è figlio dello scrittore Robert Littell. E’ autore del pluripremiato romanzo LE BENEVOLE.
Antoine d’Agata è nato il 19 novembre 1961 a Marsiglia, in Francia. All’età di 17 anni interrompe gli studi per vivere nel mondo della notte. Per 12 anni ha vissuto e viaggiato in circa 20 paesi. Nel 1991, mentre viveva a New York senza esperienza fotografica, si iscrisse all’International Center of Photography, dove studiò con Nan Goldin e Larry Clark. Negli ultimi 30 anni Antoine d’Agata ha vissuto e fotografato in tutto il mondo e ha pubblicato circa 50 opere. È membro a pieno titolo dell’agenzia Magnum Photos dal 2008. Di fama internazionale, il suo lavoro è stato oggetto di numerose mostre personali, esposto in vari musei e incluso in collezioni pubbliche e private in tutto il mondo.
Jonathan Littell, Antoine d’Agata, Un luogo scomodo, traduzione di Maria Baiocchi, Einaudi, 2023
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