“Condivisero quel che restava del giorno. Da fuorilegge, con piccoli furti e atti di vandalismo inutile. Piccole imprese che nondimeno li legavano uno all’altro, li confondevano uno nell’altro. Separati del mondo si avvicinavano tra loro. Chi li vide, mentre camminavano verso casa, avrebbe giurato che fossero una coppia. Stavano bene insieme, quei due bambini, con lettere al posto dei nomi. A e B, uniti dalla loro diversità, intrinsecamente connessi, come carta e penna, sale e pepe, pronto e soccorso ” (p. 20).
Credo che non esistano colpe per un bambino. O, quanto meno, che non esistano colpe tanto grandi per cui la legge debba sottrargli l’intera giovinezza. Questa premessa è doverosa, da parte di chi vi parla – un ex educatore – nel presentarvi un libro doloroso, struggente e intenso come Boy A, storia di una redenzione impossibile per un delitto orribile compiuto a soli dieci anni da un bambino – una coppia di bambini, per esser precisi, ancorché il testo si concentri sul ritorno alla libertà di uno solo dei due – che a respirare profondamente le pagine di Trigell aveva pure qualche attenuante per essere arrivato a commettere un gesto tanto orribile e ingiustificabile. Ma le attenuanti ambientali, psicologiche e sociali, si sa, soprattutto a certe latitudini, non fanno breccia nella predisposizione inquisitoria del popolo, della massa, né tanto meno in quella di una stampa sempre attenta a moralizzare, stigmatizzando le colpe altrui, piuttosto che concentrarsi sulla sua inarrestabile decadenza. Boy A è un romanzo che ci costringe a confrontarci col male e ad indagarlo in profondità, cogliendo ogni piccola sfumatura e interrogando la nostra sensibilità più intima sui chiaroscuri della vita e sull’altro da sé più inquietante che alberga in ognuno di noi. Una lettura che dilania, profondamente, che stravolge, interiormente, che annienta le barriere del pregiudizio anche del più rigoroso inquisitore morale. Perché in quest’epoca di decadenza, inutile vi nascondiate, siamo comunque un po’ tutti colpevoli se esistono vicende come quella raccontata da Trigell, che è certamente un romanzo, non ci sono dubbi, peraltro ispirato da un vero fatto di cronaca del 1993, l’assassinio del piccolo James Bulger per mano di due bambini poco più grandi.
Questa è la storia di Jack, uscito di prigione a 24 anni dopo esservi entrato a 10, per aver violentato e assassinato la piccola Angela Milton insieme a un compagno di giochi. La vicenda ebbe vasta eco nel Regno Unito, suscitando l’emozione e la rabbia dell’opinione pubblica che si spinse a chiedere, dalle colonne dei quotidiani nazionali, il carcere a vita per i due bambini, nonostante la giovanissima età. Lo sgomento e lo sdegno di un’intera nazione sopravvive al tempo e all’oblio possibile della memoria, quando il ragazzo viene rimesso in libertà, tanto che si formano gruppi giustizialisti che lo cercano per fargli la pelle, fino ad arrivare a offrire una taglia per chi scopre la sua nuova identità. Jack è il suo nuovo nome. E grazie all’interessamento di Terry, l’assistente sociale che si è preso cura di lui in carcere e che adesso è diventato suo zio, ora ha un lavoro una casa ed è sostanzialmente irrintracciabile. È un mondo tutto nuovo per Jack, che praticamente non ha mai vissuto, che è sopravvissuto in carcere ad angherie e solitudine affettiva – morta la madre durante la detenzione, il padre lo ha abbandonato al suo destino scegliendo un lavoro in Oriente –, fino a sorprendersi della nuova possibilità che la vita gli stava offrendo. Non credeva, non credeva proprio: né di resistere, né di ritrovare la libertà. Jack non sa nulla della vita, e nonostante la prigione l’abbia forgiato fisicamente e psicologicamente è ancora un bambino. E come potrebbe non esserlo, dopo un’infanzia negata. Ogni piccola cosa è una scoperta grandissima: il lavoro, l’amicizia, la stima degli altri, addirittura il sesso e l’amore. L’amore no, quello proprio non credeva di meritarlo, davvero non credeva. Ma perché Jack si era macchiato di un delitto così efferato, quando era ancora un bambino? Inutile dirvi che era sempre malmenato e vilipeso dai compagni di classe, che il padre pensava non fosse nemmeno suo figlio, che i genitori vivessero una crisi di coppia scandita da silenzi e anaffettività. Inutile dirvi che la periferia inglese è degradante e desolante come ogni periferia del mondo, che l’unico amico che trovò era un bambino antisociale che viveva con un fratello maggiore che lo violentava ripetutamente. È più che probabile che niente ai vostri occhi possa giustificarlo – possa giustificarli: perché gli angeli neri, a ben guardare, sono due. Dicevamo di Jack, dunque, rinnovato nello spirito e aperto alla vita, nella quale i tormenti e i mostri – quelli che la notte vengono a trovarti in sogno, o che al mattino ti seguono come un segugio – sembrano pian piano svanire. Sembrano, perché in fondo sono sempre li, più reali che mai, che ti aspettano per ricordarti le tue colpe, il tuo passato e il fatto che probabilmente non esiste possibilità di redenzione.
Rare volte, come nel caso di Boy A, m’è capitato di partecipare così empaticamente a una narrazione, nonostante il tema scabroso e un protagonista a cui – mi rendo conto – non tutti si sentirebbero così vicini come mi ci sono sentito io. Il merito è soprattutto di Jonathan Trigell, perché è così bravo da distanziare lo sguardo dai fatti usando – scelta più che mai corretta e appropriata – la terza persona e al contempo a rendere vive le sue pagine tanto da farle penetrare come una lama nella nostra coscienza e nelle nostre colpe, nel nostro lato oscuro. L’occhio non giudicante dell’autore ci aiuta a partecipare alla routine quotidiana di Jack senza doverlo odiare ad ogni secondo per ciò che è stato, per l’atroce delitto di cui si è macchiato, per il solo fatto che è libero di dire e di fare, di andare. Ma liberi non si è mai, in siffatte circostanze, e nonostante il profilo psicologico del protagonista sia volutamente descritto a livello di superficie minima – altra scelta narrativa azzeccata, che evita ricatti morali, in un senso e nell’altro – la gravità e l’intensità della vicenda sono talmente potenti da produrre un’ansia salvifica che pervade l’intero romanzo, dalla prima all’ultima pagina. In particolare le ultime 40 pagine, in cui si capisce che la morsa stringe Jack in modo drammatico, sospendono l’emozione e inquietano davvero per l’angoscia di quel che sicuramente a breve leggeremo piuttosto che per il destabilizzante colpo di scena che Trigell ci cala improvviso come una mannaia. Eh si, c’è anche il colpo di scena, devo dire sorprendente, non tanto per la fattispecie narrata, quanto perché l’autore è talmente bravo a centrare l’attenzione sul suo protagonista che alcuni personaggi di contorno sembrano sbiadire in ruoli accessori o di semplici comparse. Non è così, come scoprirete, perché ogni personaggio sulla ribalta è un tassello posto su una scacchiera immaginata ad arte da uno scrittore che fonde creatività e pragmatismo cronachistico con invidiabile abilità. E il libro scorre, senza momenti di stanca, al contrario sviluppando una progressiva curiosità anche nel lettore più emotivamente distante dallo spirito della storia e dalle numerose implicazioni etiche e sociali di cui è ricco questo romanzo. L’epilogo è aperto e malinconico, in linea con lo spirito dell’intera narrazione.
In effetti, pur sapientemente distanziandosi dai personaggi proposti (di estrema delicatezza e sensibilità la scelta di chiamare i due bambini semplicemente A e B), Trigell non disdegna un attacco sottotraccia – ma robusto ed efficace, proprio perché porta a segno punti più col fioretto che col cannone – alla società inglese, al suo regime carcerario, ai media, al giustizialismo conservatore, alla stampa “gossippara”, all’alienazione prodotta da realtà territoriali marginali e lasciate al loro poco invidiabile destino, mostrando di fatto le crepe di un sistema solitamente immaginato solido, quanto meno rispetto a quello italiano. Trigell è un giornalista, e la sua impostazione d’indagine sui fatti lo dimostra, ma è un giornalista affatto corporativo che stigmatizza il limite opposto rispetto a quello che viene imputato alla stampa nostrana. Per alcuni versi un limite più inquietante, perché non se ne conosce il possibile confine: la stampa britannica è troppo libera, talmente libera che quando lo desidera crea la notizia. Non si è più cronisti di una storia o di un evento, come l’autore – pur facendo esercizio di immaginazione pura – di questo intenso romanzo, ma si è creatori di una storia o di un evento, reale o immaginario non importa, che produce denaro, interesse, vendite.
Il successo di vendite in madrepatria ha consentito a Boy A di superare i confini nazionali, pur essendo un’opera prima (addirittura una tesi di scrittura creativa), e di arrivare anche sul mercato italiano, grazie alla casa editrice ISBN. Non è arrivato in Italia, invece, il bellissimo (a quanto ho letto e anche visto: i trailer sono in rete) film diretto da John Crowley che ne è stato tratto pressoché fedelmente. Solite ottusità italiote: ovviamente lo aspetto con viva curiosità, e anche qualcosa di più.
Davvero un’opera sconvolgente, frastornante, per certi versi e per chi è interessato a questi temi davvero memorabile: Boy A è uno di quei romanzi anche utili e pedagogici, una vicenda in cui specchiarsi e confrontarsi col più terribile altro da sé, quello che ha segnato per sempre la vita di un bambino che non è – in questo – davvero diverso da noi. Siamo tutti angeli e demoni, e le circostanze e i contesti contano. Eccome se contano. Possiamo noi giudicare non avendo titolo per farlo? Questo è l’inquietante interrogativo che traspare da Boy A, e si estende oltre la narrazione e i dubbi legati all’età in cui un delitto viene commesso. Per il resto, per il tema che più mi preme, dubbi non ne ho, tanto da ribadire, nel concludere queste considerazioni su un testo che vi consiglio senza riserva alcuna, che un bambino, qualunque bambino, pur colpevole del più grave delitto possibile immaginabile, non può vedersi in nessun modo sottratta la giovinezza per volere di una qualunque giustizia, anche quella più ligia alle regole, scrupolosa, imparziale. Chi è preposto a giudicare spesso non conosce la natura umana, meno che mai quella di un bambino. Questo è uno dei più grossi limiti dei nostri ordinamenti giuridici. Riflettete gente, riflettete. Prima di commettere l’imperdonabile errore di giudicare anche voi, con infinita leggerezza.
“Angela provò a sgusciare tra i due, ma fu scaraventata a terra, da uno o dall’altro, o da tutt’ e due. Era difficile dirlo. Era tutto così indistinto sotto il ponte, lontano dalla luce del sole. Fu B a spingere fuori la piccola lama retrattile e a sfregiarla sul braccio che si dimenava. Di questo Jack è abbastanza sicuro. Ma si ricorda anche di un secondo bambino che vide la bocca di Angela aprirsi per l’incredulità e assaporò lo choc improvviso che le attraversò gli occhi, quando si accorse di aver perso il controllo della situazione. Fu B a spargere il primo sangue. Fu lui a cominciare il gioco. Ma insieme uccisero un angelo e fecero avverare la sua maledizione” (p.238).
Federico Magi, settembre 2009.
Edizione esaminata e brevi note
Traduzione di Tomaso Biancardi. In appendice, Nota del Traduttore.
Follow Us