Dopo Million dollar baby, quello che probabilmente può essere definito il suo capolavoro – ancorché sia difficile scegliere tra le perle eastwoodiane dell’ultimo quindicennio -, l’oramai ultrasettantenne Clint Eastwood decide per un’operazione filmica che non ha precedenti: condensare in due film, usciti nelle sale a stretto giro di posta, il duplice punto di vista dei contendenti della sanguinosa battaglia di Iwo Jima, avamposto giapponese in cui caddero sul campo uno spropositato numero di vite umane. Se Flags of our fathers, opera che inquadra l’ottica del fronte americano, già dal titolo concentra l’attenzione sul tema della bandiera come simbolo primo dell’identità, confermando nell’evoluzione della storia evidenti dosi di enfasi patriottica (comunque mai patriottarda), Letters from Iwo Jima è un film più intenso e più sottile, più empatico e doloroso, che usa, anche qui in modo riconoscibile, fin dal titolo, la metafora delle lettere spedite dal fronte per fotografare la guerra in tutte le sue componenti (fisiche e psichiche, finanche metafisiche, a ben guardare), trasportandone i motivi dal particolare all’universale.
Il ritrovamento delle lettere scritte e mai spedite dai soldati giapponesi che persero la vita sull’isola di Iwo Jima è l’innesco per un lungo flashback che percorre l’intero arco della pellicola, in cui viene raccontata la strenua opposizione dell’esercito del Sol Levante, durante il secondo conflitto mondiale, nell’improbabile e suicida difesa di un avamposto strategico attaccato in massa dalle truppe americane. È subito chiaro al generale Tadamichi Kuribayashi, il più alto ufficiale in grado, che le sorti sono segnate già prima dello sbarco del nemico, in quanto la madrepatria, costretta a difendersi su ogni fronte, non può fornire più armi né uomini. Ventimila soldati giapponesi si trovano orgogliosamente a confliggere contro centomila soldati americani, peraltro meglio armati e con più scorte di acqua e di cibo. La scarsità di risorse, la dissenteria e la comprensibile sensazione di inadeguatezza mista a disperazione per le più che certe sorti del conflitto non fiaccano l’esercito nipponico, disposto a combattere fino all’ultimo respiro. Nonostante ciò, come evidenza di tutti i conflitti, vengono fotografate da Eastwood l’umana complessità e le diverse anime di un popolo creduto sempre fin troppo monolitico: tra eroismo e coraggio, fanatismo e follia, paura e tentazione di diserzione, il fronte giapponese riuscirà a fiaccare il nemico di ben settemila unità, prima di soccombere con onore.
Senza abbandonare i toni elegiaci di Flags of our fathers, essendo ad esso speculare ma distanziandosene per rigore narrativo, misura e pathos, Letters from Iwo Jima dà modo al regista statunitense di confermarsi cineasta ispirato e a tutto tondo, capace di mettere in scena grandi storie come quella in questione, un’opera struggente ed emozionante, un film di guerra e soprattutto sulla guerra, che va ad accostare – pur se con un impianto meno filosofeggiante – quello che a mio avviso è il più grande lungometraggio di genere: La sottile linea rossa di Terrence Malik. Ma Eastwood non è Malik – l’opera di Mallik rimane comunque un prezioso unicum nel genere, per modalità espressive, visive e narrative, un capolavoro universale che scandaglia l’inconscio e l’anima del soldato rispetto all’infinità di questioni che lo travolgono quando si ritrova, spesso suo malgrado, attore e non spettatore esterno al conflitto – e oltre all’anima cura anche il corpo e gli stati di coscienza. Ne viene fuori un’opera di crudele bellezza, di doloroso lirismo e di viva passione, la cui universalità è data dall’equidistanza con cui il regista americano osserva e restituisce la natura dell’uomo, pressoché identica ad ogni latitudine al cospetto dell’incubo degli incubi, fattosi reale: la guerra. Il pregio, come ripeto e come è consuetudine del cinema eastwoodiano, sta nel rigore e nella misura, nella capacità di concepire un dittico che stigmatizza l’orrore della guerra allontanandosi totalmente dal becero pacifismo o dal facile antimilitarismo, creando per l’appunto un’opera dal valore, dallo spirito e dalla pedagogia universale ma non relativista, rendendo limpido allo spettatore che il soldato è prima di tutto un uomo a conflitto coi suoi demoni e con le sue insicurezze, lontano dagli affetti e consapevole della sua prossimità alla morte – più prossimo di chiunque altro -, qualunque bandiera rappresenti.
Lo script è davvero coinvolgente, e dopo una mezz’ora d’assestamento entra nel vivo di personaggi che vengono indagati nella loro complessità, palesando i mille dubbi del caso, mostrandoci in sostanza che sono figure lontane dalle marionette nonostante rispondano a ordini insindacabili, sovente incomprensibili. Logico che, nell’entrare nell’intimo e nelle psicologie dei soldati giapponesi, la bella sceneggiatura di Iris Yamashita ponesse l’accento sullo spirito nipponico, fedele al culto dell’Imperatore fino al darsi la morte per una più onorevole dipartita, ma distinguendo tra sano eroismo, culto patriottico e cieco fanatismo. La figura del generale Kuribayashi, interpretato dallo straordinario Ken Watanabe (lo ricordiamo, tra gli altri film, ottimo co-protagonista ne L’ultimo samurai di Zwick), unitamente a quella di Baron Nishi, campione olimpionico d’equitazione, sono l’emblema dell’eroismo, del coraggio e della lucidità strategica, pervasa anche da una sorta di filantropia, in apparenza inusuale in un conflitto armato. A questo proposito Eastwood, in un sicuro e totale equilibrio, a piedi nudi su una corda infuocata (l’immagine è calzante, visto il tema), esemplifica il sottotesto più esplicito e importante della pellicola nella sequenza in cui Baron Nishi, soccorrendo un soldato americano morente nel tentativo umano più che umano – quasi estraniandosi, o forse calandosi completamente nel contesto, ed essendo il più alto in grado, in quel momento – di donargli un po’ di conforto, si imbatte in una lettera che leggerà all’intera truppa, attraverso la quale i sentimenti e le paure del soldato americano lontano dal suolo amico si sovrappongono a quelle dei “nemici” giapponesi. La consapevolezza e il dubbio: paura della morte, di non rivedere più i propri cari, di donare se stessi a una causa che non sempre è cosi limpida e pura come la retorica patriottica vorrebbe infondere è uguale per ognuno, sotto qualsiasi bandiera, in ogni tempo, in ogni luogo. Il tutto riassunto da una semplice ed emblematica risposta di un giovanissimo soldato dell’esercito giapponese al suo compagno di sventura, che si chiedeva se era più giusto disertare, visto il precipitare degli eventi, o morire da eroe per l’Imperatore: “Non hai vissuto abbastanza per capire cosa stai sacrificando”. E qui c’è tutto il senso della tragedia nella tragedia che porta con sé un conflitto di tali dimensioni: i fiori recisi prima del loro sbocciare, la gioventù vittima sovente inconsapevole, sacrificata sull’altare dell’interesse collettivo, che rimanda sempre – dalla notte dei tempi, da che storia è storia – alle costruzione di nuove geografie, spostando l’asse ma non la sostanza delle cose, da un predominio all’altro, da Impero a Impero.
La storia portata sullo schermo da Eastwood, ispirata al libro che contiene le lettere del generale Kuribayashi, valorizzata dal soggetto del nuovo talento made in USA Paul Haggis (regista e sceneggiatore che due anni fa vinse l’Oscar come miglior film con Crash – Contatto fisico) e brillantemente sceneggiata da Iris Yamashita, non ha cedimenti narrativi ed è crescente per pathos e intensità più si avvicina all’epilogo. Tutto l’apparato tecnico (Oscar per il suono) contribuisce a dar lustro ad un’opera che trova nella fotografia (una luce a cavallo tra realtà e sogno) un ulteriore punto di forza, e nell’intimista colonna sonora di Michel Stevens e dello stesso Eastwood il giusto sottofondo emotivo per l’incedere degli eventi. Regia eccellente e dall’ampio respiro, fatta di panoramiche e campi lunghissimi, di intensi primi piani e di flashback che non alterano la luce tra presente e ricordo. Forse perché tutto il film è un intero flashback.
Letters from Iwo Jima è senza alcun dubbio un capolavoro di genere, superiore ai pluripremiati Salvate il soldato Ryan e Platoon – non considerando nel lotto, perché guerreschi atipici, Apocalypse Now e Full Metal Jacket: non ho timore di affermare che, unitamente al già citato La sottile linea rossa, è il più bel film di guerra e sulla guerra a cui ho assistito. Oscura per intensità e per compattezza il pur coinvolgente innesco al dittico, Flags of our fathers, sovrastando con l’immagine universale della lettera la potenza identitaria della bandiera; una sincera e sentita incursione nel territorio, nelle ragioni, nell’anima e nello spirito dei vinti, degli sconfitti, confermando che Clint Eastwood riesce a dare il meglio di sé e a costruire un grande cinema quando riesce a cantare i perdenti e le loro storie, piccole o grandi che siano.
Curiosità: Letters from Iwo Jima uscì nelle sale in lingua originale, giapponese con sottotitoli in italiano. L’edizione italiana in Dvd, invece, è tradotta, ma naturalmente ha anche la versione originale sottotitolata. Io consiglio vivamente la versione originale sottotitolata, perché più emozionante e realistica.
Federico Magi, dicembre 2008.
Edizione esaminata e brevi note
Regia: Clint Eastwood. Soggetto: Tadamichi Kuribayashi (ispirato al libro di), Iris Yamashita, Paul Haggis. Sceneggiatura: Iris Yamashita. Direttore della fotografia: Tom Stern. Montaggio: Joel Cox, Gary Roach. Scenografia: Henry Bumstead, James J.Murakami. Costumi: Deborah Hopper. Interpreti principali: Ken Watanabe, Kazunari Ninomiya, Tsuyoshi Ihara, Ryo Kase, Shido Nakamura, Hiroshi Watanabe, Takumi Bando, Yuki Matsuzaki, Takashi Yamaguchi, Eijiro Ozaki, Nae Yuuki, Nobumasa Sakagami, Lucas Elliot, Sonny Saito, Hiro Abe, Masashi Nagadoi, Ykuma Ando, Steve Santa Sekiyoshi, Toshiya Agata, Yoshi Ishii, Toshi Toda, Ken Kensei. Musica originale: Clint Eastwood, Michael Stevens (II). Produzione: Clint Eastwood, Robert Lorenz, Steven Spielberg per Amblin Entertainment, Dreamworks SKG, Malpaso Productions, Warner Bros. Pictures. Origine: Usa, 2006. Durata: 140 minuti.
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