Che David Lynch si sentisse a suo agio nel raccontar di “mostri” lo si intuisce già dall’opera prima (Eraserhead), così imperscrutabile eppure fascinosa, cosi lontana dalle produzioni dei fine Settanta e già a suo modo cinema con tracce di futuro. Che una neonata casa di produzione, partorita comunque dal ventre hollywoodiano, fondata dal regista comico-demenziale Mel Brooks, affidasse a Lynch, autore dimostratosi bizzarro e indipendente, l’ambizioso progetto di realizzare un’opera basata su una dolorosa e toccante storia realmente accaduta, era assai improbabile. Eppure fu cosi, Lynch venne proprio scelto per un progetto mainstream che puntasse ad una grande e variegata platea. Così nacque The Elephant Man, pellicola basata sulla vera storia del più deforme freak che l’umanità recente ricordi, il giovane John Merrick, l’uomo elefante, vissuto nell’Inghilterra vittoriana tra l’inizio degli anni Sessanta fino alla fine degli Ottanta. Lynch aderisce al progetto, pur intuendo le difficoltà che una tematica del genere porta con sé – è una grande opportunità di far uscire il suo cinema dai circuiti minori -, trovando il modo di metterci molto di suo, sia dal punto di vista visivo che narrativo. Il risultato è che The Elephant man resta ancora oggi una delle pellicole più commoventi e meno manierate, considerando il soggetto sviluppato, della storia del cinema; un’opera di estrema delicatezza e di soave poesia, lontanissima da compiacimenti o buonismi estetici e narrativi, da cadute di ritmo e da facili abbandoni al sentimentalismo. Le lacrime ci saranno, è inevitabile, potranno anche sgorgare copiose in alcuni frangenti, ma ce ne fossa una, che sia una, gratuita o a buon mercato. Vediamo brevemente la trama.
Siamo nell’Inghilterra vittoriana, John Merrick è il mostruoso uomo elefante: affetto da neurofibromatosi, ha il cranio sproporzionato e il corpo tumefatto da tumori. Viene esibito nelle fiere dal suo “proprietario”, riscuotendo sensazioni di puro terrore e disgusto da parte della folla pagante. Si interessa alle sue sorti il dottor Treves, inizialmente avvicinatosi a tale inimmaginabile deformità per le possibilità di studio e di ricerca, poi sempre più incline a voler conoscere le profondità dell’anima dello sventurato giovane. Riesce quindi a sottrarlo al padrone trovandogli alloggio nel proprio ospedale, lo aiuta a ritrovare le parole e i pensieri, facendolo accettare e proponendolo come “pari” all’alta società. Certo il confine tra l’aiuto e l’interesse personale – la conseguente fama derivante – è cosi labile che Treves è colto da innumerevoli dubbi, che si fanno improvvisi turbamenti della coscienza quando Merrick viene rapito dall’antico padrone. Ma l’uomo elefante, aiutato dai nani della fiera, riesce a fuggire e ritornare nel vecchio continente. Accolto come un mostro da una folla timorosa dell’improvvisa e orribile diversità che si manifesta ai loro occhi, l’informe giovane pronuncia parole che risuonano come un lamento di dolore perentorio e grave, del tutto consapevole del sentimento che genera in coloro che dovrebbero essere i suoi simili, gli esseri umani: “non sono un animale… sono un essere umano… un uomo!”. Ritrovato da Treves, ma oramai in pessime condizioni fisiche e, a sua insaputa, prossimo alla morte, Merrick avrà modo di godersi un’opera teatrale, l’applauso del pubblico e una dipartita accolta con serenità e pace interiore, più che mai umana.
Nonostante l’opera in questione sembri narrativamente lontana dal Lynch che conosciamo e abbiamo imparato ad amare per il suo cinema cosi destabilizzante, irrazionale e multidimensionale, The Elephant man pone subito l’accento su uno dei tratti distintivi dell’intera filmografia lynchana, quel contrasto tra percezione dell’anima e percezione del corpo che non troverà mai una sintesi, una crasi, una pace, un’unità in nessuno dei suoi personaggi. Corpo e anima, in Lynch, sono due componenti distinte e separate, probabilmente scisse all’origine: se il corpo è ciò che appare, ciò che suscita il giudizio esterno della massa, l’anima è la componente più vera ma sovente imperscrutabile dall’essere umano che si arresta alla superficie esteriore, nemmeno troppo indagatore dell’alterità che gli si svela, perché ingannato dall’apparenza dell’immagine. È ciò che subisce Merrick, talmente deforme da insinuare nella folla orrore e disprezzo, nel migliore dei casi curiosità. Lynch è affine all’anima del suo freak, ce la mostra nella sua profonda sensibilità, nei suoi slanci di ricerca poetica, nel suo spontaneo ricreare, in modo immaginifico, un mondo a sé esterno percepito come bellezza continua e sorprendente. E la diversità che il regista del Montana ci pone di fronte non è una diversità antagonista o di contrasto al contesto, come logica vorrebbe, ma tesa altresì a volersi uniformare con ciò che ritiene intimamente più prossimo: l’essere umano. Di più, Merrick, creduto inizialmente ebete, troverà, grazie alla nobiltà e all’incanto proprio alla sua natura interiore, la via per sentirsi un vero essere umano, aiutato da Treves e grazie ad un’anima che è estranea al pregiudizio e al male. Ciò che sorprende e che sconvolge è la consapevolezza di quest’uomo creduto animale, anche e soprattutto di fronte alle continue evidenze che la vita gli pone di fronte: il disgusto e la curiosità che genera, anche in positivo, una volta uscito dalla prigione circense, sono più fonte di ricerca di sé che istinto di estraniazione dal mondo che lo circonda. Emblematico è ciò che dice ad una nota attrice di teatro, divenuta sua interessata amica: “La gente ha paura di quello che non riesce a capire… ma vede, faccio fatica anch’io a capire… mia madre era bellissima”. E qui c’è tutto il dramma umano e biografico di Merrick, partorito da una madre molto bella che era stata schiacciata e colpita più volte da un elefante, una volta rimasta incinta, rimanendo in fin di vita. La foto della madre, sempre ricordata e amata, campeggia nella camera del giovane e appare nel buio del controverso mondo onirico che accompagna le notti del “mostro”, mai veramente trascorse in quiete. Lynch dà un saggio della sua arte visionaria proprio nel filmare i sogni che angosciano Merrick, popolati da macchinari inquietanti, elefanti e dolorosi ricordi trasfigurati che sfumano e si dissolvono nel volto materno.
La pellicola è stata realizzata in un raffinato bianco e nero, richiesto espressamente dal cineasta americano come condizione estetica irrinunciabile per portare a compimento l’opera. La splendida fotografia, a tratti claustrofobica, è di Freddie Francis, veterano e maestro, più volte nei credits delle successive opere lynchane. Notevole la prova di Hurt, misurata ed efficace quella di Hopkins. Performance che danno ulteriore lustro ad una sceneggiatura calibrata che dosa sapientemente i motivi narrativi, affascinante per la scelta di tener nascosto allo spettatore il volto di Merrick durante i primi trenta minuti. Lynch, nonostante sia semplice esecutore materiale di una storia non partorita dalle sue iperboli inconsce, trova il modo di connotare, col suo tocco riconoscibile, le caratterizzazioni dei personaggi e alcuni snodi narrativi interessanti: in particolare si evince la solidarietà tra freaks, nel momento in cui i nani capiscono che le sorti del giovane deforme sono le più terribili, le più atroci possibili. Uno dei piccoli esseri, rivolto a Merrick, quasi sussurrando, nel momento dell’addio gli regala queste parole: “Buona fortuna… chi ne ha più bisogno di noi?”.
Difficile restare senza particolari emozioni di fronte ad una pellicola del genere, di fronte ad una storia quanto mai dolorosa cui il singolarissimo sguardo lynchano dona una pietas umana tanto potente quanto essenziale, risoluta, senza alcun fronzolo o laccio narrativo, senza stucchevoli approdi, con un finale di un’intensità cosi profonda che si fa purezza, lirismo e canto, nonostante un protagonista gravato irrimediabilmente dalle sue fattezze orripilanti. Quando Merrick dice, rivolto a Trevor: “La mia vita è bella, perché so di essere amato”, ogni possibile barriera cade e Lynch, mettendo a nudo l’anima del “mostro” prossimo alla morte, ci regala il suo segreto più intimo, la sua dimensione spirituale mai così vicina alla comprensione e all’empatia immediata dello spettatore; la stessa che, sembrerà strano a chi non conosce bene o poco ama questo genio assoluto della settima arte, vivrà successivamente nelle visioni oniriche dei suoi personaggi perduti negli intervalli del tempo. Quel tempo che la mente cominciò a cancellare, sin dal suo primo lungometraggio.
Non perdetevi questo capolavoro, è uno dei pochi Lynch per tutti. Unitamente a Edward mani di forbice, di Tim Burton, è il film che meglio ci avvicina ad accettare, e qualche volta anche ad amare, ciò che sovente la nostra ragione, il nostro pregiudizio, il nostro retaggio culturale e le nostre paure inconsce non ci permettono di capire: l’altro. Così oscuro, cosi mostruoso, così diverso, così lontano da noi.
Curiosità: The Elephant man fu candidato ad otto premi Oscar, tra i quali miglior film, regia e sceneggiatura. Non ne vinse nessuno.
Federico Magi, marzo 2007.
Edizione esaminata e brevi note
Regia: David Lynch. Soggetto: tratto dai libri “The Elephant man and Other Reminescences”, di Sir Frederick Treves e “The Elephant Man: a Study in Human Dignity”, di Ashley Montagu. Sceneggiatura: Christopher De Vore, Eric Bergren, David Lynch. Direttore della fotografia: Freddie Francis. Montaggio:Anne V. Coates. Interpreti principali: Anthony Hopkins, John Hurt, John Gielgud, Anne Bancroft, Freddie Jones, Wendy Hiller, Michael Elphick, Hannah Gordon, Phoebe Nicholls, Dexter Fletcher, Lesile Dunlop. Musica originale: J. Morris. Scenografia: Stuart Craig. Costumi: Patricia Morris. Produzione: Stuart Cornfeld, Jonathan Sanger, Terence A. Clegg per la Brooksfilm. Origine: Gran Bretagna / Usa, 1980. Durata: 124 minuti.
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