Ogni tanto passano anche per le nostre sale. Passano in maniera fuggevole, ahimè, solo nelle grandi città e in uno o due cinema che fanno scelte di programmazione meno banali. Passano pellicole che ti fanno pensare che non possono esistere solo Neri Parenti o Harry Potter, né lo scialbo minimalismo di celluloide all’italiana, né i Muccino e gli Ozpetek, i Brizzi, gli Accorsi, la Bellucci e gli Scamarcio. Eh si, cari spettatori italiani, voi lo sapete meglio di me quanto sia difficile trovare pellicole di cui innamorarsi, soprattutto se – pur presentendone la possibilità – si è costretti a fare molti chilometri per trovare la sala ospitante: meglio Harry Potter o Scamarcio, non c’è da pensar nulla e ce li abbiamo sotto casa. E scusatemi per queste parole un po’ in libertà, che vanno a togliere spazio all’analisi di un’opera cinematografica che, al contrario, è proprio una di quelle perle rare di cui vi facevo cenno. Uscito in Italia a fine giugno (e ancora presente in un paio di coraggiose sale romane), XXY, opera prima della scrittrice e sceneggiatrice argentina Lucia Puenzo (figlia d’arte: il padre, qui produttore, è un noto regista sudamericano), è uno di quei film destinati, se si ha la fortuna di riuscire a vederli, a far discutere parecchio, visto il tema. Si parla in effetti di intersessualità, che per i meno avvezzi a coglier d’immediato il significato effettivo del termine possiamo chiamare anche, con enfasi letteraria, ermafroditismo. Se ancora non avete capito di cosa stiamo parlando, è di tutta evidenza che l’ignoranza vi si divora, pertanto vi consiglio di passare alla lettura della prossima recensione. XXY, la sequenza evocata dal titolo, risponde ad una presunta alterazione genetica, allorché consuetudine vorrebbe che i geni X e Y vadano a coppie: XY caratterizza il sesso maschile, XX quello femminile. Parlavamo di consuetudine, dunque, ma l’eccezione, XXY (l’intersessualità) – a leggere le statistiche – non è poi cosi inusuale come si immagina.
Da questa suggestione la Puenzo parte per raccontarci la storia di Alex, quindicenne adolescente intersessuale dalle graziose fattezze femminili, dal momento in cui le pulsioni dell’eros si fanno forti e confondono: è il tempo della ricerca di sé, quello più intimo. La giovane si è trasferita con la famiglia dall’Argentina all’Uruguay, in una landa di natura viva, di fronte al mare, lontana dal mondo. Il padre di Alex, biologo marino, non ha voluto praticare alcuna “rimozione” alla nascita – coraggiosamente: in controtendenza con ciò che è d’abitudine in questi casi. Per lui Alex è perfetta, è bellissima cosi com’è, lo è sempre stata; e poi perché lasciarle cicatrici indelebili, marchiando in corpo per l’intera sua esistenza? Cosi però non sembra più pensarla la moglie del biologo, la madre dell’adolescente, la quale invita nella loro casa in riva al mare una coppia d’amici interessati al “caso Alex” – dal punto di vista medico, evidentemente. Con loro portano anche il figlio Alvaro, sedicenne schiacciato dall’ombra di un padre importante e affatto convinto delle qualità intellettive del ragazzo. Di più, considerandolo peccato ancor più grave, non è convinto della sua virilità. Tra Alex e Alvaro scatta un’attrazione forte, figlia della curiosità di conoscere il proprio intimo sentire alla luce della scoperta del proprio corpo, della propria sessualità. E quando Alex si sorprenderà ad amarlo con modalità maschili, prendendolo da dietro, per ambedue i ragazzi sarà il principio di una diversa conoscenza del proprio corpo e dei propri desideri, filtrati da quel rimescolio di sentimenti, sradicamento del sé fino ad allora conosciuto, che può provocare solo l’amore adolescenziale. Ma per Alex i problemi sono pressanti e maggiori, la sua diversità genera orrore e curiosità fuori dal contesto affettivo, la direzione da seguire confusa e indecifrabile: ragazza o ragazzo? Genere maschile o femminile? È stanca di prendere ormoni, vuol essere quello che è, che si sente: né uomo né donna, non esistono etichette, lei è solo Alex.
Un film che, se siete liberi da pregiudizi e amate il cinema intelligente e non banale, non potrà non coinvolgervi. XXY è un’opera prima di forte impatto emotivo, un viaggio nella diversità meno conosciuta, accettata, compresa. Non dico che siamo dalle parti del mostro elefantiaco lynchiano (l’immenso Lynch, nel suo capolavoro più amato universalmente: The Elephant Man), perché Alex è tutto fuorché un mostro, è di una bellezza androgina che non passa inosservata; dunque la Puenzo ci regala una storia in cui l’emarginazione dovuta ai – presunti: sempre meglio usare questo termine quando non si conosce da vicino ciò di cui si parla – gap fisici è evidente, dolorosa. Alex, in una delle scene più forti della pellicola, è trattata da tre ragazzi come una sorta di mostro da baraccone, costretta, suo malgrado, sotto violenza, a mostrare la sua nuda e segreta intimità. Eppure, a non conoscere il suo segreto intimo, come ripeto, l’adolescente è una ragazza come le altre, davvero graziosa, che, al limite, non ha qualcosa in meno, se proprio vogliamo sottilizzare, ma bensì qualcosa in più.
Difficile trattare l’argomento intersessualità filtrandolo attraverso gli occhi di un’adolescente e di una famiglia costretta ai margini del mondo per celare il suo segreto, senza correre il rischio di trasformare le inevitabili malinconie narrative in derive patetiche e gratuitamente lacrimevoli. Difficile ma non impossibile, almeno per la Puenzo, che ci regala un’opera calibrata nel ritmo e nel dispensare emozioni, asciugando il più possibile la narrazione e centrandola spesso sui silenzi, sull’espressività dei volti. A supporto della cifra autoriale c’è la felice scelta della protagonista, perché Inés Efron, pur in realtà di qualche anno più grande del personaggio interpretato, ha un volto di una bellezza espressiva notevole, con due “occhi parlanti” come raramente se ne vedono sul grande schermo. Il volto efebico, le fattezze androgine, la complessità di una figura forte e al contempo indifesa sono caratteristiche che donano al suo personaggio una credibilità indiscutibile, a cui la giovane attrice latino-americana aggiunge una recitazione convincente che non perde mai in misura. La regista argentina dimostra anche di essere a suo agio con la scrittura, costruendo una sceneggiatura limpida, senza buchi neri e interrogativi dimenticati sul campo. Tutto è molto chiaro, leggibile, comprensibile: il messaggio di fondo, se cosi lo vogliamo definire, è quello di pensarci non una ma infinite volte prima di alterare la natura di un essere umano, che le cicatrici del corpo potrebbero restare, nel tempo, come più pesanti cicatrici dell’anima. A questo proposito, la Puenzo individua nel padre di Alex una figura solida, coraggiosa, in qualche modo edificante; egli ama e ha sempre amato suo figlio, dal primo istante in cui è arrivato al mondo, percependolo come un dono, mai come un problema: è commovente quando ci spiega quanto lo aveva trovato bello quando era nato. Figlio? Certo, figlio. L’uomo lo chiamerà sempre cosi, in un’accezione non maschile, come potreste immaginare, ma quanto mai generica.
Ciò che fa di XXY una pellicola di sicuro interesse e grande intensità è la capacità della Puenzo di puntare sul concreto, evitando artifici narrativi, espedienti di regia e ricatti emotivi. Qui il pathos, inevitabile, scaturisce dal buonsenso (il capire che la natura umana non si potrebbe e non si dovrebbe alterare), oserei dire dalla ragione, da nulla che sia irrazionale. Anche la colonna sonora fa di tutto per non risultare invadente, e i dialoghi sono ridotti all’essenziale. La regia è di stampo quasi documentaristico e privilegia i quadri simbolici, usando come unico rafforzativo le immagini desolanti, non prive di crudele bellezza, della natura circostante. Lontani, dunque, sono i toni consolatori, perché il tema è importante e per alcuni scabroso, talmente scabroso da non essere contemplato come incontestabile realtà cui confrontarsi. L’invito a misurarsi con ciò che solitamente evitiamo, non solo e non sempre per paura, ma anche e soprattutto per indifferenza , accomuna questa pellicola ad un altro riuscito e doloroso lungometraggio, quel Mysterious Skin di Gregg Araki che venne presentato un paio d’anni fa a Venezia e passò come una meteora nelle sale italiane. Un destino simile a quello di XXY, come avrete inteso, per un un’opera altrettanto suggestiva e necessaria (li si parlava di pedofilia).
Onore alla regista argentina, dunque, che alla prima prova dietro la macchina da presa dimostra coraggio e sensibilità, capacità di andare a pescare un argomento scottante, mai rappresentato in questo modo – una sorta d’analisi partecipata di una vicenda privata che si fa, pedagogicamente, monito universale – sul grande schermo. Ancora una volta siamo dalle parti della ricerca d’identità, dell’attenzione alla diversità, tematiche la cui urgenza di comprensione risulta fondamentale in un mondo globale nel quale si cerca l’omologazione a tutti i costi. Questo film, come risulterà evidente dopo l’analisi proposta, va in direzione opposta e contraria all’omologazione-rimozione, è un invito all’autodeterminazione di sé che non si può non accogliere, considerato il tempo che ci ospita.
Curiosità: L’intersessualità è conosciuta anche come sindrome di Klinefelter. Il film, in concorso all’ultimo Festival di Cannes, ha vinto il prestigioso premio della “Settimana della critica”. Premio Ariel per il miglior film iberoamericano. Premio Goya per il miglior film latino-americano.
Federico Magi, settembre 2007.
Edizione esaminata e brevi note
Regia: Lucia Puenzo. Soggetto: tratto dal racconto di Sergio Bizzio. Sceneggiatura: Lucia Puenzo. Montaggio: Alex Zito, Hugo Primero. Fotografia: Natasha Braier. Interpreti principali: Inés Efron, Ricardo Darin, Valeria Bertuccelli, Carolina Pelleritti, German Palacios, Martin Piroyansky, Guillermo Angelelli, César Troncoso. Scenografia: Roberto Samuelle. Costumi: Manuel Morales. Musica originale: Daniel Tarrab, Andrés Goldstein. Produzione: Historias Cinematograficas Cinemania, Wanda Vision, Piramide Productions. Origine: Argentina / Francia / Spagna, 2007. Durata: 91 minuti.
Follow Us