Trasposizione abbastanza fedele dell’omonimo romanzo di Ian McEwan, Il giardino di cemento è il terzo film diretto dal regista e sceneggiatore Andrew Birkin, fratello della bellissima Jane Birkin, mito e icona artistica dei Settanta, e pertanto zio dell’affascinante Charlotte Gainsbourg, non a caso protagonista femminile della pellicola. Di non semplice adattamento, viste le tematiche e l’essenzialità narrativa di McEwan, l’opera venne ospitata in concorso a Berlino nel 1993 e vinse un meritato Orso d’argento. I temi proposti dallo scrittore inglese e trasposti ottimamente da Birkin riguardano i complicati equilibri familiari e i turbamenti adolescenziali, rimescolati in una miscela esplosiva che dà vita a un racconto crudo e scabroso che si conclude addirittura con un incesto tra fratelli, narrato in modo essenziale ed impietoso e filmato con qualche apertura maggiore al pathos e a sottilissimi intermezzi lirici rispetto al romanzo. Scorriamo brevemente la trama.
In una casa ai margini del mondo reale, immersa in una desolazione di erbacce, calcinacci e oggetti in disuso, vive una famiglia londinese composta da madre padre e quattro figli, gli adolescenti Jack (15 anni) e Julie (poco più grande del fratello), e i bambini Tom (7 anni) e Sue (11 anni). Durante i lavori per cementare il giardino circostante il padre dei ragazzi muore d’infarto, proprio mentre il figlio maggiore si stava masturbando in bagno. Jack vive un profondo impeto ormonale, e si masturba ripetutamente durante la giornata. Alla morte del padre, però, non è lui che prende le redini della famiglia ma Julie, la sorella maggiore. Di lì a poco tempo si ammala anche la madre, che morirà nel sonno in un giorno d’agosto, lasciando i quattro fratelli soli al mondo. È in questo preciso istante che l’universo conosciuto da Jack, Julie, Tom e Sue va in pezzi, nel momento in cui decidono di celare al mondo la dipartita della madre, immergendo il suo corpo senza vita in una sorta di bara di cemento tenuta in cantina. Jack comincia a non lavarsi più; il piccolo Tom, con l’accordo della sorella maggiore, inizia a travestirsi da bambina, con tanto di parrucca e abitino cucito per l’occasione, Sue si immerge nella scrittura di un impietoso diario sugli eventi delle giornate trascorse, e Julie si fidanza con un ragazzo che ha il doppio della sua età. Vivono con la rendita della madre. Le cose presto precipitano, allorché Jack, che ha sempre fantasticato sul corpo della sorella maggiore, prova gelosia e fastidio nei confronti del fidanzato della ragazza, un facoltoso commerciante che a sua volta cerca di insinuarsi, sia pur con buonissime intenzioni, nella vita di questa disadattata famiglia. Ma Julie, al contrario di ciò che pensa Jack, non s’è mai concessa al suo ragazzo e in una notte che cementa in modo quasi surreale l’affetto tra i fratelli, unirà il suo corpo con quello di Jack proprio sotto gli occhi del fidanzato, decretando di fatto la fine dell’improbabile idillio familiare.
Un film doloroso e a tratti inquietante, ma intenso e coinvolgente senza bisogno di sfiorare le lacrime o i ricatti morali. Distantissimo da intenti morali o moraleggianti, per l’appunto, Il giardino di cemento è una degna trasposizione di un bellissimo e disturbante romanzo che ha innescato non poche controversie anche tra gli amanti di McEwan. La narrazione chirurgica e distaccata di McEwan è sapientemente bilanciata da Birkin, grazie a una regia essenziale che abbraccia un’estetica certo rigorosa – non c’è un movimento di macchina gratuito che sia uno – ma valorizzata da tutti gli elementi cinematografici a supporto: a una scenografia evidentemente minimale fa da efficace collante visivo una splendida fotografia che dosa sapientemente ogni singola luce sulla scena. A valorizzare gli ottimi dialoghi vi è l’uso non invasivo e suggestivo di una colonna sonora che evoca più i toni del noir d’atmosfera che le cadenze da melodramma. A fortificare una storia di non facile interiorizzazione c’è la convincente prova di tutti gli attori sulla ribalta. Note di merito, a tal proposito, per l’allora ventenne Charlotte Gainsbourg, ancora imprigionata in innocenti ma al contempo conturbanti fattezze adolescenziali, e per la bravissima Sinéad Cusack, nel ruolo della madre. Credibile e ambiguo-angelico quanto basta Andrew Roberson, che interpreta il fratello adolescente. Nel cast c’è anche Tom Birkin (nei panni del piccolo Tom), figlio del regista.
Ci sono diverse scene che restano impresse per la loro efficacia, momenti magicamente sospesi tra il lirico e lo scabroso senza mai risultare patetici o – peggio ancora – involontariamente ridicoli, né tanto meno disturbanti a livello visivo, nonostante i delicati temi posti sotto la lente d’ingrandimento da Birkin. Intensa, poetica e malinconica la sequenza che precede l’incesto tra i fratelli adolescenti, in cui Jack e il fratellino Tom restano abbracciati nudi nel lettino di lui, trovando una profonda e fraterna consonanza affettiva nel ricordare la madre e nello scambiarsi confidenze più adulte. La stessa identica scena, lo dico a beneficio della curiosità di chi legge, può aver certamente innescato in qualche povero di spirito sentimenti di disturbo o repulsione. Dipende sempre dalla particolare angolatura da cui guardiamo i fatti.
Nonostante quella de Il giardino di cemento possa risultare ai più una vicenda eccessivamente scabrosa e disturbante così come è stata narrata da McEwan, nell’adattamento di Birkin trova delle chiavi interpretative – grazie alle scelte estetiche e di regia – che non possono non generare la possibilità d’adesione e d’empatia, grazie anche ad un afflato lirico che incontriamo nelle brevi sequenze in cui la scena è dominata dall’incursione del flashback. Sono i momenti del ricordo, durante i quali la luce sfuma e i tratti si fanno più vaghi, la fotografia è quasi desaturata e le immagini di letizia e di gioia dell’infanzia ci raccontano di un passato più remoto – vista la contingenza vissuta dai ragazzi – di quel che effettivamente è, ma allo stesso tempo talmente vicino alla trasfigurazione-riaggiornamento del presente interiorizzato dai quattro fratelli da sembrare un soave e salvifico (nostalgico) intervallo del tempo. Ciò che emerge dal film, in definitiva, pregio ascrivibile peraltro anche al bellissimo romanzo di McEwan, è la ricerca, pur disgraziata, complicata se non addirittura improbabile di un’unità familiare che deve fare i conti con una doppia, dolorosissima perdita. E il cemento evocato dall’ eloquente e calzante titolo è proprio questo, l’imprescindibile e ineludibile vincolo di sangue che si trasforma addirittura in rapporto incestuoso. Ma non c’è volgarità o gioco morboso, non c’è voglia di sconvolgere con argomenti ad effetto o di dubbio gusto, c’è un’effettiva urgenza e necessità di unirsi quasi simbioticamente per farsi scudo di un mondo crudele e disperato, di eludere un destino il quale – è chiarissimo ai due adolescenti, pur confusi e immersi nel mondo a parte creato per evadere e per difendersi – non potrà che essere di separazione (l’arrivo degli assistenti sociali, i conseguenti affidi alle strutture), di distanza, di dolore, denso di difficoltà. Se non siete capaci di leggere tra le righe, del romanzo come del film, è più che consequenziale consigliarvi di cercare altrove. Questa storia non fa per voi.
Federico Magi, gennaio 2010.
Edizione esaminata e brevi note
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