Qualche giorno fa veniva celebrata la giornata contro l’omofobia. Qualche giorno fa, senza neppure sapere che esistesse una giornata contro l’omofobia, ho comprato (usato) “Arturo, la stella più brillante” dello scrittore cubano Reinaldo Arenas. Primo libro per me di un autore di cui avevo solo sentito dire e solitamente dire bene. Arenas non ha mai nascosto la sua omosessualità ma nel 1973, dopo aver apertamente sferzato con la sua penna e le sue parole personalità insigni del regime castrista, viene tradotto in carcere e accusato di pedarastia, deviazionismo ideologico e persino di edonismo. Se, dopo tale esperienza, avesse scelto di non provare a fuggire da Cuba a bordo di un gommone per essere ripescato quasi subito, probabilmente avrebbe evitato il peggio, ossia finire a “El Morro”, un carcere ancora più duro ed esemplare popolato per lo più da assassini e stupratori, alla mercé di secondini disumani e pericolosi almeno quanto i detenuti: una letterale discesa negli inferi.
“Arturo, la stella più brillante” è dedicato a Nelson Rodríguez Levya legato ad Arenas da profondissima amicizia. Omosessuale come Arenas, Nelson fu internato in un campo di concentramento appositamente realizzato dal regime nel 1965. Venne rilasciato tre anni più tardi per “malattia mentale”. Finì fucilato dopo aver tentato di dirottare un aereo armato di una bomba a mano. Scrive Arenas in calce ad “Arturo, la stella più brillante”: “Penso al momento in cui, stringendo in mano la bomba, mentre sorvolava l’Isola con i suoi campi di lavoro e le sue carceri, Nelson si è sentito libero, in cielo, forse per l’unica volta in tutto la sua vita. Da qui la dedica del libro“.
Arturo viene arrestato durante una retata. Si trova in teatro, ascolta ottima musica, immerso in una dimensione diversa e sublime fatta di visioni, sogni, ricordi e meraviglie. Solo dopo, alla fine del concerto, dopo gli applausi, quando l’orchestra e il suo direttore sono ormai dietro le quinte, Arturo sente dei rumori ed altra agitazione, “… si trattava di una delle solite “retate” di giovani giustificate dall’insolito pretesto dei capelli troppo lunghi, di un modo particolare di vestire, e soprattutto di certi tratti, di certe “maniere”…“. Arrestato e portato in un campo di lavoro, Arturo è condannato a tagliare canne da zucchero per tutto il giorno sotto la stretta sorveglianza di uomini armati. Vietato parlare, vietato bere, vietato distrarsi, vietato stare male. All’inizio Arturo cerca in ogni modo di starsene in disparte e in silenzio. Ma gli altri prigionieri non gli danno tregua. Le rappresaglie sono fatte di insulti e violenze ma Arturo li ignora facendoli infuriare ancora di più. “… perfino i superiori, i capi, gli altri, disprezzavano maggiormente quel frocetto che, malgrado la sua “debolezza”, voleva darsi arie da persona perbene…“. Un atteggiamento che non paga e non aiuta, non lì, in quell’inferno. Per questo, ad un certo punto, Arturo capisce: “loro, e gli altri e tutti gli altri, tutti, insomma, vale a dire la volgarità, l’imbecillità, l’orrore, non tollerano l’indifferenza; tradimenti, furti, offese, morte, tutto poteva accadere, e di fatto accadeva, ma era inammissibile, al momento di commettere il delitto (prima e dopo), che non si tenesse conto dell’immensa marmaglia, che non ci si fidasse di lei, che qualcuno non vi si sottomettesse“. Semplicemente Arturo finge di adattarsi. E si fa come loro per rimanere ancora più radicalmente se stesso. Si tramuta in quello che gli altri vogliono vedere e credere che sia pur di essere lasciato in pace: “solo in questo modo, solo esponendosi in continuazione, infilandosi dappertutto, presentandosi puntuale a tutti gli eventi, essendo lui stesso l’evento, poteva guadagnarsi lo straordinario privilegio della loro indifferenza, magari perfino la gloria dell’oblio…“.
Rosa, sua sorella, viene a trovarlo e gli lascia dei soldi, dei dolci e dei quaderni. La notte stessa Arturo decide che, visto che non sa tagliarsi la gola, avrebbe usato quei quaderni. Se tutti gli altri accettano con mansuetudine la loro condanna, se trovano logiche le offese ricevute, se traducono in abitudine ogni punizione ed ogni abominio, lui avrebbe fatto diversamente. Arturo sceglie di scrivere. Vuole raccontare il suo orrore, testimoniare la sua esistenza. E scrive di una scrittura minuscola, frettolosa e quasi illeggibile. Scrive appena può. Scrive di nascosto perché di certo non si possono tenere diari in carcere. Scrive in tutti gli spazi disponibili. Sui margini e sulle copertine, sul retro dei manuali rubati e sui manifestini appesi alle pareti. Ed inizia così a dare vita al suo mondo immaginario e fantastico, il suo cosmo perfetto fatto di architetture principesche, fiumi senza fine, giardini lussureggianti, cieli tersi e musica d’incanto. Il suo rifugio visionario e salvifico, la sua oasi magica ed intoccabile. Ed è lì che si rifugia tutte le volte che può mentre la sua mente inizia a confondere sogno e realtà. Un volo verso la follia o forse solo verso la liberazione?
Un libro lungo una sola frase. Una frase che copre un intero libro. Non ci sono punti né maiuscole qui. Arenas scrive e descrive un urlo lungo 73 pagine per raccontare la disobbedienza morale ed umana di un ragazzo che non riesce a farsi annientare da un regime che non ammette dissenso. Una disobbedienza che passa rigorosamente attraverso la parola e la poesia. Perché i sogni di Arturo (che porta il nome di una luminosissima stella) rappresentano la poesia e la bellezza necessaria a chi pretende di rimanere umano dove non c’è alcuna umanità. Il monologo in terza persona di Reinaldo Arenas contiene, evidentemente, il ricordo dell’amico Nelson che viene celebrato con amore e disperazione. Una scrittura che tripudia e sfavilla di lirismi e si distende e si ritrae con estrema fluidità. Pare un piccolo gioiello questo “Arturo, la stella più brillante”. Terminato nel 1971 va fatalmente, e tragicamente, ad anticipare quanto lo stesso Arenas sarà costretto a vivere solo qualche anno più tardi.
Edizione esaminata e brevi note
Reinaldo Arenas è nato ad Holguín, regione orientale di Cuba, nel 1943. Vive e studia nella sua città d’origine e, nel 1963, si trasferisce a L’Avana per iscriversi alla facoltà di Lettere e Filosofia. Arenas non terminerà i suoi studi ma mostra fin da subito grande interesse per la scrittura creativa e per l’attività politica. Lavora presso la Biblioteca nazionale José Martí e, nel contempo, scrive i suoi primi testi. Nel 1966, grazie a “El mundo alucinante”, conquista l’attenzione dei critici e un riconoscimento ufficiale. Reinaldo Arenas dichiara apertamente la propria omosessualità e partecipa attivamente alla vita politica del suo Paese. Presto, però, alcuni suoi articoli al veleno iniziano ad attirare le attenzioni delle autorità del regime che, nel 1973, lo arrestano per la prima volta. Dopo questa esperienza lo scrittore prova a fuggire da Cuba utilizzando la camera d’aria della ruota di un camion. Viene ripescato ed arrestato di nuovo finendo però presso il carcere duro di “El Morro” dove viene torturato e dove non riesce a suicidarsi. Viene rilasciato nel 1976 e ridotto al silenzio. Riesce ad emigrare negli Stati Uniti solo nel 1980 quando Fidel Castro decide di permettere l’espatrio di omosessuali ed altre persone non gradite. Si stabilisce a New York ma nel 1987 scopre di essere malato di Aids. Reinaldo Arenas si suicida nel 1990 ingerendo un mix di alcol e di droghe.
Reinaldo Arenas, “Arturo, la stella più brillante”, Edizioni Cargo, Napoli, 2007. Traduzione di Raul Schenardi. Titolo originale “Arturo, la estrella más brillante” (Montesinos, 1984).
Pagine Internet su Reinaldo Arenas: Wikipedia / Arena-Arenas (Nazione Indiana) / Reinaldo Arenas, writers in exile (The Paris Review)
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