Ci eravamo lasciati col “Silencio”. Cinque anni, tanti ne sono passati da quell’opera cosi unica e assoluta che fu Mulholland Drive. È d’obbligo il fu, e non perché la pellicola realtà-sogno-incubo-ritorno e ancora sogno del 2001 abbia perso, col tempo, la sua originalità e la sua potenza visivo-espressiva, ma perché l’ultimo Lynch, questo viaggio nell’impero interiore, è un’opera che, quanto a assolutezza e unicità, non può trovare credibili rivali nemmeno nello stesso cosmo lynchano.
“Silencio”, dunque, attesa prolungata degli spettatori amanti e poi le prime, attesissime, notizie: Venezia, e subito scatta la curiosità. Critiche contrastanti, polemiche, rischio di non vedere mai la pellicola nelle sale, qui in Italia. Per fortuna scongiurato. Ma per una volta freghiamocene dei critici di professione, di coloro che si divertono a navigare nel mare dell’ovvio, che godono a stroncare opere di personaggi complessi e artisti non conformi. Cosi succede anche per Inland Empire, pellicola che genera più che mai odio o amore totale. Distanza o vicinanza assoluta, incondizionata. E che Lynch sia autore non conforme è quanto mai evidente, non serve certo ripercorrere la sua ineguagliabile cinematografia, né ricordare quanto sia poco amato, per non dire disprezzato, dal parte dello star system hollywoodiano. Ma non divaghiamo, torniamo al film, spiazzante già dal titolo. Inland Empire, rigorosamente da scrivere tutto maiuscolo, a detta del regista, perché non c’è nulla di più vasto e inconoscibile del nostro universo inconscio, del nostro impero interiore. Quello lynchiano poi è una voragine, in cui è possibile trovare strade perdute, porte improvvise, alterazioni percettive, stati di allucinazione ossessiva e permanente e vie per nuovi mondi, come accade in queste tre ore oltre il confine. L’intreccio? Vi garantisco che è del tutto irrilevante, e che dopo un terzo di film diventa addirittura accessorio, catapultati come sarete nei luoghi-non luoghi del mondo onirico del cineasta del Montana. Ad ogni modo l’idea narrativa su cui si sviluppa Inland Empire è abbastanza cara a Lynch: Hollywood, la mecca del cinema, un’attrice scelta per il ruolo di protagonista, un film maledetto. E, una volta all’interno del film, la protagonista della finzione prende il posto di quella della realtà, e viceversa. Ma potrebbe anche non essere cosi, potrebbe essere che il film sia la realtà e che la realtà sia la finzione cinematografica. Oppure, più probabilmente, che nulla sia reale, che sia tutto un sogno. O ancora, plausibile sia questa la via da seguire, che il cinema è arte, arte scenica, arte della finzione. Ma c’è di più. Trattandosi del grande regista statunitense, è logico ci sia di più.
Il mezzo tecnico, primo strumento utile alla rappresentazione-finzione, è qui al servizio di un genio della creazione, di un innovatore senza eguali. Lynch scopre l’uso del digitale, e tanto gli piace che nel giocarci, nel trasformare le idee in immagine, somiglia a quei bimbi che, ancor puri, scoprono le meraviglie della natura e trovano subito l’armonia con essa. Il digitale è dunque al servizio del sogno, dell’incubo, così sgranato e sporco da sfocare e deformare l’immagine. L’uso disinvolto e irregolare della macchina digitale consente a Lynch di trovare angolature impossibili, deformando volti negli ossessivi primi piani che costellano l’intera pellicola. Il risultato è un effetto stono dell’immagine, talmente poco definibile nel dettaglio da ricordare proprio l’esperienza intima, per ognuno di noi, del sogno. Ed ecco che siamo calati nel sogno lynchano, nell’impero interiore: una volta entrati bisogna per forza proseguire, in quanto la porta che ci ha accolti è svanita di colpo. E di porte ne troveremo tante, tante quante ne trova la protagonista (e forse ancor di più, se siete ben predisposti), immediatamente investita da una miriade di immagini, luoghi e tempi che si sovrappongono, che retrocedono e improvvisamente si superano, in maniera totalmente disarticolata. Siamo con la Dern nel labirinto, vediamo ombre, luci innaturali, una donna che piange davanti ad una sit-com di gente con in testa una maschera di coniglio (Rabbits), prostitute, homeless e la targa di Hollywood che ogni tanto appare. Appare per ricordarci che siamo dentro un film? Noi di certo ne siamo consapevoli (lo siamo in ogni momento?), ma la protagonista? L’attrice non sembra accorgersene subito, è assai disorientata. Ha un marito, un amante… ma ne siamo sicuri? O è una prostituta? Oppure… fatto sta che nei pressi dell’epilogo entra in una sala cinematografica vuota, si vede riproiettata nello schermo. È il film che ha appena finito di girare, certamente… eppure. Eh sì, proprio lei, sempre lei, ancora sullo schermo: ma allora è la realtà? D’improvviso torna la sit-com degli “uomini coniglio”; torna sempre, quando meno te lo aspetti: è un incubo, c’è anche chi muore, per gelosia o cosa? Eppure… eppure nemmeno qui tutto torna. Si resta avviluppati dall’oscurità.
Non vi scervellate, non vi arrovellate, lasciatevi vincere dalla potenza visionaria di questo capolavoro assoluto del cinema che verrà. Del cinema che verrà, certo, perché Lynch dimostra di essere anni luce avanti a tutti, talmente avanti da generare imbarazzo e incomprensione nei più. Ma parliamoci chiaro, cari lettori, questa è (video)arte, arte pura, non è per tutti. Se Lynch fosse per tutti ci sarebbe qualcosa che non và, non nella massa consumatrice ma nel senso estetico di chi considera l’arte come qualcosa di unico e irripetibile. Cinema del futuro, dunque, e di gran lunga, tanto che al cospetto Strade Perdute e Mulholland Drive sembrano la preistoria del genio e non le opere immediatamente precedenti a questa. Si diceva dell’uso-abuso estremo e singolare della macchina digitale, dell’impianto antinarrativo, favorito da un montaggio suggestivo e delirante dello stesso Lynch e dell’uso della luce e del colore (superba la fotografia), ma non si possono dimenticare certo gli attori. Tutto ruota intorno alla Dern (Cuore selvaggio, Velluto blu), musa totale, quasi in simbiosi con Lynch sembra davvero generata da un suo sogno, tanto è imperfetta e ruvida nei lineamenti del volto, reso ancor più irreale dalle continue deformazioni cui è sottoposto dalla manipolazione digitale. Ci sono anche gli ottimi Jeremy Irons e Justin Theroux, rispettivamente regista e coprotagonista del film nel film, ma anche Harry Dean Stanton, lynchano della prima ora (ottimo in Una storia vera – The Straight story). E poi molti volti, soprattutto femminili, ai quali Lynch aggiunge, proprio nell’ultima sequenza, quelli di Laura Harring (Mulholland Drive) e Nastassja Kinsky. E poi ci sono i rimandi a se stesso, alle atmosfere oniriche (i film già citati, più l’esordio con Eraserhead, per finire con Twin Peaks) delle pellicole precedenti e agli interni surreali di Twin Peaks, amplificati dalle traiettorie impervie della macchina da presa. Ma se pensate che Lynch si prenda totalmente sul serio, che creda di essere un guru del terzo millennio, un ideologo portatore di un messaggio universale veicolato attraverso l’immagine sbagliate di grosso. Certo che egli è compiaciuto, e ne ha ben donde visto l’opera partorita. Dopo averci immerso nel buio dell’incubo più profondo si congeda con una canzone piena di ritmo, in cui le ragazze ballano allegramente, demistificando idealmente ogni cosa, proprio sui titoli di coda.
Inland Empire, comunque la si voglia giudicare, è un’opera metacinematografica dichiarata, sin dalle prime sequenze. Non è un film ambiguo, non vive su nessun confine, non immagina alcun compromesso narrativo, sposa il mondo onirico e immaginifico senza riserva alcuna. È un’ esperienza estetica irripetibile, dieci passi oltre il modo di celluloide conosciuto, un film situato in un territorio talmente oscuro e indefinibile se letto attraverso i canoni interpretativi attuali che rischierà di restare per anni una terra inesplorata e inesplorabile dalla stragrande maggioranza degli spettatori. Che sia una sorta di testamento artistico, per il caro David? Cosa può Lynch oltre Inland Empire? Difficile dirlo, soprattutto restando all’oggi, ma una profezia mi sento di farla: Il cinema prossimo venturo verrà inevitabilmente ad abbeverarsi a questa fonte, cosi che Inland Empire sarà un giorno (ri)scoperto e collocato tra le opere che danno lustro alla settima arte. Da tre giorni nelle sale, è stato distribuito in sole 25 copie, in Italia. Sarà un fugace passaggio cinematografico, non v’ è dubbio alcuno, si farà in fretta posto a qualche sguaiata commedia americana o a qualche action movie con grandi star hollywoodiane. Arriverà in Dvd, certo, ma io vi consiglio, qualora abbiate la ventura di vivere in un grande centro urbano (almeno una sala nelle maggiori città d’Italia dovrebbe proiettarlo), di volare al cinema e godervelo sul grande schermo. È il palcoscenico che gli compete.
Federico Magi, febbraio 2007.
Edizione esaminata e brevi note
Regia: David Lynch. Soggetto e Sceneggiatura: David Lynch. Direttore della fotografia: Odd-Geir Saether. Montaggio: David Lynch. Interpreti principali: Laura Dern, Justin Theroux, Jeremy Irons, Harry Dean Stanton, Julia Ormond, Grace Zabriskie, Diane Ladd, William H. Macy, Laura Harring, Nastassja Kinsky. Musica originale: Angelo Badalamenti. Scenografia: Christina N. Wilson. Costumi: Karen Baird, Heidi Bivens. Produzione: David Lynch, Mary Sweeney. Origine: Usa / Polonia / Francia, 2006. Durata: 172 minuti.
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