“Il Ribelle è il singolo, l’uomo concreto che agisce nel caso concreto. Per sapere che cosa sia giusto, non gli servono teorie, né leggi escogitate da qualche giurista di partito. Il Ribelle attinge alle fonti della moralità ancora non disperse nei canali delle istituzioni. Qui, purché sopravviva in lui qualche purezza, tutto diventa semplice.” (p. 114).
Venuto alla luce pochi anni dopo il secondo conflitto mondiale, nel momento in cui gli assetti del mondo si erano ristabiliti ed era chiaro a tutti quali fossero i nuovi equilibri e i nuovi imperi dominanti, Il Trattato del Ribelle è il testo di Jünger più importante ed emblematico; una lucida e coinvolgente analisi su come orientarsi nel mondo a noi contempraneo, su come combattere il Leviatano di questo tempo e sbarrare la strada ai prossimi Titani. È un manuale di resistenza, laddove resistere significa riscoprire e ritrovare il proprio sé in un mondo che – grazie al potere della burocrazia, della scienza e della tecnica – cerca sempre più di svuotarlo di significato. Il Ribelle jungeriano – l’anarca – è colui che sceglie di “passare al bosco”, di abbandonare la nave in perenne e improduttivo movimento, emblema di un materialismo sempre più padrone delle coscienze del tempo, per passare a uno stadio immoto, cosmico, spirituale – il bosco, per l’appunto, dimora dell’essere nella quale l’io torni a vincere sulla massa, su un noi collettivo sempre più impersonale e spersonalizzante.
È un viaggio affascinante attraverso le contraddizioni dei sistemi democratici e i valori ribaltati della modernità – è fortissima, in tutta l’analisi jungeriana, l’influenza del pensiero di Friedrich Nietzsche, laddove è restituito chiaramente l’incubo profetico nietzscheano rispetto alla transvalutazione di tutti i valori, “il mondo reale che diventa favola”, e all’ “ospite inquietante”, il nichilismo, fino ad arrivare alla potente immagine del “deserto che avanza”, territorio in cui estende il suo potere malefico il Leviatano, preparando il terreno ai futuri Titani -, nel quale il filosofo tedesco ci frastorna ancora una volta con numerose immagini, potenti allegorie, suggestive ed inquietanti visioni, mescolando il tutto con la sua innata predisposizione d’antropologo e di scienziato politico e sociale.
Le prime considerazioni critiche riguardano i sistemi elettorali democratico-parlamentari e l’inganno al loro interno contenuto, non meno che nei sistemi plebiscitari che si mascherano da libere elezioni: “L’arte del comando consiste semplicemente nel porre la domanda nel modo giusto, essa si rivela altresì nella messa in scena, nella regia di cui detiene il monopolio. L’evento va presentato come un coro assordante che suscita insieme terrore e ammirazione” (p.13). L’inganno democratico e plebiscitario è anche e soprattutto linguistico, e la coercizione derivante – come insegnava anche Toqueville – è data dalla minaccia d’emarginazione sociale. In buona sostanza, Jünger rivendica la possibilità di dire “no”, un no percepito dalla massa come sintomo di una minoranza pericolosa, tacciato dal potere dominante addirittura come criminale. Chi dice no, per Jünger, ha scelto di passare al bosco, ha scelto la libertà, ha scelto una via più ardua e difficile, ma l’unica possibile per rigenerare il proprio sé. Destabilizzare il potere costituito è già un modo per svincolarsi dalla sua egemonia, in quanto “l’elettore si trova davanti a un vero paradosso, perché a invitare a sceglierlo liberamente è un potere che, per parte sua, non ha alcuna intenzione di rispettare le regole del gioco.” (p.24)
Il passaggio al bosco è una via difficile e irta di ostacoli, perché presuppone di abbandonare la nave, luogo sicuro ma privo di passioni e sussulti in cui i singoli individui non sono più tali e vengono fagocitati dal sistema, divenendo massa informe, pensiero unico, impossibilità di scalare i gradi dell’essere, di essere liberi. Ma non basta dire no per essere Ribelle, non basta sganciarsi da burocrazia e statistiche, bisogna sapersi distinguere nell’immenso gregge dell’umanità, rendere visibile prima alla coscienza e poi al mondo la propria libertà di individuo, per incrinare le certezze del potere e insinuare il dubbio di ribellione nella massa: “…tra il grigio delle pecore si celano i lupi, vale a dire quegli esseri che non hanno dimenticato cos’è la libertà. E non soltanto quei lupi sono forti in sé stessi, c’è anche il rischio che, un brutto giorno, essi trasmettano le loro qualità alla massa e che il gregge si trasformi in branco. È questo l’incubo dei potenti.” (p.33)
Gli eroi del mondo dominato dalla tecnica sono per Jünger Il Lavoratore (cfr. L’operaio) e il Milite Ignoto, in differente modo figli dei “mondi fiammanti”, delle “devastazioni meccaniche”, protagonisti nobili della lotta per i materiali, motivo primo dei conflitti e degli imperialismi novecenteschi, democratici e non. Al Lavoratore e al Milite Ignoto si aggiunge il Ribelle: se il Lavoratore è colui che piega al suo volere la materia, e dunque manifesta il suo dominio sulla tecnica, il Milite Ignoto è la vittima sacrificale sull’altare della democrazia formale; per ultimo il Ribelle è chi “nel corso degli eventi si è trovato isolato, senza patria, per vedersi consegnato all’annientamento”. Ma il Ribelle, come oramai sarà chiaro, è destinato per sua natura a opporre viva resistenza, contrapponendosi all’automatismo e ribadendo il suo no, che potremmo definire il suo peculiare grido di libertà.
Egli ha scelto di passare al bosco, e lo ha fatto per combattere l’angoscia e la paura, sentimenti che imprigionano la massa al muro del tempo. Jünger utilizza la suggestiva allegoria del Titanic per evocare l’immagine della massa sulla nave, lì dove sopravvive e prolifera il terrore per la finitezza, per la caducità dei corpi, per il vuoto di senso rispetto alla vita, per l’incognita relativo a ciò che è soprasensibile e ingovernabile attraverso la ragione. Paure e angosce esistenziali che si avvitano in un movimento su sé improduttivo e senza orizzonte di senso: questo è dimorare sulla nave, essere massa. Il Ribelle sfida la paura, la sconfigge e la riconverte in nuovi orizzonti di senso, nella consapevolezza che solo l’uomo liberato dal timore può combattere il Leviatano, il deserto che avanza: “In questo vortice, la questione fondamentale è se sia possibile liberare l’uomo dal timore. Obiettivo di gran lunga più importante che rifornirlo di armi o provvederlo di medicinali. Forza e salute sono prerogativa degli impavidi. Il timore, invece, stringe d’assedio anche – anzi, soprattutto – chi è armato fino ai denti.” (p.48)
Il singolo è l’antagonista del Leviatano, il suo unico contraltare; il singolo sceglie il proprio destino, si eleva dalla massa, non è più numero ma individuo. Il bosco è il territorio in cui l’uomo trova questa consapevolezza; prima dormiente e poi desto, prima in una dimensione cosmico-spirituale, poi dandosi all’azione. Nel passaggio al bosco è la genesi del Ribelle, colui che vince gli inganni del tempo e dell’illusione, che surclassa la materia perché ha le giuste armi per distruggere – anche semanticamente – i mostri di metallo. A questo proposito, Jünger ci dona uno dei suoi consueti e affascinanti passaggi visionari: “ Catturati nel gioco di potenti illusioni ottiche, siamo abituati a considerare l’uomo, se confrontato con l’arsenale della sua tecnica, un granello di sabbia. Ma queste illusioni sono e rimangono i fondali di una immaginazione gregaria. Come l’uomo le ha costruite così le può demolire, ovvero le può inserire in un nuovo ordine di significati. I vincoli della tecnica si possono infrangere, e a farlo può essere proprio il singolo.” (p.52)
Il Ribelle non subisce la legge del tempo, vive nella storia ma è a suo modo sovrastorico e sovratemporale, utilizza le tecniche e le idee a lui contemporanee per riconvertirle in forze superiori che “non si esauriscono mai in puro movimento”. Egli non mira solo alla conquista di una dimensione interiore che lo sollevi dal grigiore del presente, ma convoglia questi sforzi e le sue nuove consapevolezze per liberare i regni materiali dall’egemonia del Leviatano. In quest’ ottica, tutta la riflessione di Jünger poggia sulla presa di coscienza che la Germania sia stata brutalizzata dai vincitori della Seconda Guerra Mondiale, e che i nuovi assetti – la divisione in due della sua patria, dominata da due apparentemente opposti ma speculari poteri – motivino più che mai alla ribellione e alla rivolta del singolo per ripristinare se non addirittura migliorare l’ordine preesistente. Tornare ad essere uomini liberi, per fare la storia: “La storia autentica può essere fatta soltanto da uomini liberi. La storia è l’impronta che l’uomo dà al destino. In questo senso possiamo dire che l’uomo libero agisce in nome di tutti: il suo sacrificio vale anche per gli altri.” (p.65)
Nonostante il progresso e le evoluzioni della scienza l’uomo rimane identico a sé stesso di fronte al muro del tempo e alle leggi del destino. Da che mondo è mondo, sono sempre le passioni e i pregiudizi a muovere gli esseri umani: “Il mondo è costruito in modo tale che pregiudizi e passioni esigono sempre il loro tributo di sangue, ed è bene sapere che ciò non muterà mai”. (p.78). Non esistono parole o pensieri nuovi, per nobili che siano, che non abbiano generato sangue, vendette, guerre, rivoluzioni, sopraffazioni. Il miraggio delle nuove formule, delle evoluzioni scientifiche, resta una metafora e un’ allegoria del tempo, rispetto ai giochi del destino e alla consapevolezza dell’inconoscibilità dell’assoluto. Quello che può mutare in maniera salvifica è il linguaggio: Jünger, nella sua personale battaglia contro il nichilismo affianca, pur in diversa forma, l’ Heidegger post Essere e tempo, nell’individuare il linguaggio poetico come linguaggio dell’essere (ambedue guardano a Holderlin e alle sue liriche), antidoto contro il dominio del linguaggio tecnico-scientifico.
Oltre che alla scienza e alle sue formule, Jünger estende le sue perplessità e i suoi anatemi nei confronti dei rimedi medico-psicanalitici, e guarda in una duplice ottica alla possibilità della fede: se è importante il ritorno alla fede e alle credenze d’ogni tipo, sintomo di resistenza al dominio del materialismo-nichilismo, diversa è la possibilità di incidere dell’istituzione religiosa (la Chiesa) rispetto a quella dell’individuo (il teologo): “Teologo è chi mira più in alto della pura economia di sussistenza e conosce la scienza del superfluo, il mistero delle fonti inesauribili che sempre si trovano vicino a noi” (p.91). Al contrario la Chiesa è istituzione, dunque soggetta alle leggi del suo tempo e al potere del Leviatano.
Il problema di fondo è sempre quello della libertà, per il filosofo tedesco. E la libertà può essere solo appannaggio del singolo, individuale. E qui Jünger ribalta il concetto classico della modernità, centrato su un ordine di tempo lineare, orizzontale, in cui la propaganda, attraverso i sistemi democratici o plebiscitari, vagheggia sempre – sostenuta da fumosi supporti giuridici – di una imprescindibile libertà da. La libertà del Ribelle è al contrario una libertà di, una libertà per; di più, è qualcosa di connaturato nell’individuo. Preesiste al suo essere nel mondo e nel tempo. A tal proposito, questo passo è illuminante: “Il vero problema è piuttosto che una grande maggioranza non vuole la libertà, anzi ne ha paura. Bisogna essere liberi per volerlo diventare, poiché la libertà è esistenza – soprattutto è un accordo consapevole con l’esistenza, è la voglia – sentita come destino – di realizzarla” (p.120). E allora non esisteranno prigioni e tiranni, perché la libertà dimorerà in una dimensione intima e inattaccabile, spirituale, sovrasensibile, sovratemporale: “La nuova libertà è quella antica, assoluta, che riappare nella veste del tempo; farla trionfare sempre, eludendo le astuzie dello spirito del tempo: questo è il senso del mondo storico” (p.120).
Jünger conclude l’opera con una riflessione sull’importanza della parola, sul potere dei nomi, a ribadire la supremazia del linguaggio su tutti gli altri dominii sensibili: “La legge e la sovranità, nei regni visibili e persino in quelli invisibili, hanno origine nell’impostazione dei nomi. La parola è materia dello spirito e, in quanto tale, idonea a edificare i ponti più arditi; essa è anche lo strumento supremo del potere” (pp.131-132).
Un testo potente e attualissimo, anche a distanza di più di mezzo secolo, Il Trattato del Ribelle mi capitò per la prima volta tra le mani a vent’anni. Libro complesso per questa età, ma nondimeno capace di accendere quei fervori salvifici e rivoluzionari che fanno bruciare di passione la giovinezza e dischiudono le porte alla ricerca di sé. Certo non tutto può essere interiorizzato, a vent’anni, ma riletto nel tempo e riaggiornato al tempo, sempre e comunque – nell’insegnamento di Jünger – eludendo il tempo, è un’opera che restituisce la consapevolezza che l’individuo, per essere tale, per trovare la via del sé, deve sapersi emancipare dalla massa, dai luoghi comuni, dalle maggioranze, dall’omologazione sociale e culturale, cercando di inoltrarsi nei tortuosi sentieri che portano al bosco. Leggere Il Trattato del Ribelle in un tempo crudele e alienante come quello in cui viviamo è quanto mai utile a ridestarci, invitandoci a sconfiggere le nostre piccole-grandi paure, cercando un’identità che trascenda la semplice dimensione materiale; un orizzonte di senso che non si arresti sulla soglia della ragione, ma che provi a guardare oltre il muro ingannevole del tempo che ci ospita.
Federico Magi, dicembre 2009.
Edizione esaminata e brevi note
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