La passione civile che anima il cinema di Clint Eastwood è la cifra tematica più evidente che emerge dall’analisi della sua cinematografia recente, e non solo: a ben guardare, bisognerebbe retrocedere al tempo dello struggente Un mondo perfetto per capire come l’opera eastwoodiana segni una cesura, uno strappo, una presa di coscienza e una maturità artistica rispetto ai motivi essenziali del suo cinema precedente. E proprio a Un mondo perfetto, a Fino a prova contraria (e per il rapporto cittadino potere anche a Potere assoluto, pur essendo quest’ultima una pellicola più votata al puro intrattenimento) e alle atmosfere del capolavoro Million dollar baby è associabile questo intenso Changeling, opera come al solito rigorosa e allo stesso tempo empatica, che trae il suo spunto da una vicenda realmente accaduta e cominciata poco prima della Grande Depressione. Una storia che ha in sé le stimmate del romanzo, del grande dramma adatto a esser narrato in forma filmica, ma che è tristemente reale. Uno spunto che trae origine da vecchie carte destinate al macero e ripescate dallo sceneggiatore Straczynski, sulla quale Eastwood edifica una pellicola agghiacciante che getta una luce scurissima sugli abusi della polizia e dell’amministrazione della Los Angeles degli anni Venti e Trenta. Una dolorosa parabola sui rapporti tra il potere costituito e le sacrosante libertà individuali dei cittadini, sovente offuscate se non addirittura annientate per costruire false verità ad uso dei media.
Siamo a Los Angeles, nel 1928, in una mattinata in cui Christine Collins, giovane centralinista, lascia a casa il figlio Walter promettendogli di tornare nel pomeriggio per andare insieme al cinema. Rientrata, suo malgrado, con notevole ritardo fa una terribile scoperta: il bambino è scomparso. Il dramma deflagra nell’arco di pochi mesi, allorché la polizia, contestata per inefficienza e modi violenti dall’opinione pubblica, la contatta per darle la lieta notizia del ritrovamento del bimbo. Ma, nonostante il bambino asserisca di essere Walter Collins, è subito chiaro alla madre che chi adesso le si trova davanti non è chi dice di essere. Le forze dell’ordine, su pressione del capo della polizia e del Sindaco, preoccupate dall’ennesima possibile rivolta dell’opinione pubblica, si ostinano contro tutto e tutti a confermare che il bimbo è chi dice di essere. Le conseguenze del muro contro muro tra la polizia di Los Angeles e la Collins portano ad estreme conseguenze per la giovane donna, che viene addirittura internata in un ospedale psichiatrico senza mandato, su richiesta dell’alto funzionario delle forze dell’ordine che si occupa del caso. L’inferno sembra non aver fine per Christine, che si ritrova sbattuta in manicomio, costretta a subire abusi e umiliazioni, fino a che non firmerà delle carte in cui ammetta la sua confusione e riconosca il bambino come suo figlio. L’amore materno, unito al combattivo carattere, consentono alla giovane di resistere fino al momento in cui, grazie all’aiuto di un pastore presbiteriano, severo censore dell’amministrazione e della polizia losangelina, il quale aveva mobilitato autorevoli esponenti dell’opinione pubblica cittadina fino a portare il suo caso in tribunale, ritrova la libertà. Ma a che prezzo? Grazie all’intervento di uno zelante poliziotto, disposto a fare per intero il suo dovere, era stata fatta una terrificante scoperta: un folle aveva ucciso a colpi d’accetta circa venti bambini, sotterrando le ossa in una zona di confine pressoché deserta. Tra le foto di essi, sottoposte al giovanissimo e soggiogato complice dell’efferato assassino, viene riconosciuta quella di Walter. All’irreparabile danno si aggiunge la beffa: il bambino che si era spacciato per Walter era solo fuggito di casa per futili motivi. Non tutto però, sembra perduto: alcuni bambini, a tutti ancora ignoti, pare siano riusciti a fuggire dalle mani del mostro. In un corposo finale che alterna le immagini dei due processi, quello che vede imputata la polizia e quello contro il pluriomicida infantile, Christine Collins dimostrerà di essere non soltanto l’alfiere di una città che è stanca di soprusi indiscriminati di istituzioni al contrario preposte alla legalità, ma anche una madre che non si abbatte, che coltiva la speranza del ritorno dell’amato figlio per l’intero arco della sua vita.
Una storia agghiacciante, dolorosissima, in cui i motivi dell’amore materno e della giustizia sono posti da Eastwood al centro della vicenda come imprescindibili tematiche con cui lo spettatore è inevitabilmente costretto a confrontarsi; specchiandosi, interrogandosi e riflettendo sui principi cardine che regolano la convivenza civile e sugli eterni abusi del potere, in qualsiasi tempo e a qualsiasi latitudine. Il messaggio è forte e universale, nonostante l’indagine sia sempre rivolta entro i confini della sua amata America, terra di contraddizioni come nessun’ altra, che il regista statunitense, film dopo film, rende sempre più limpide e consapevoli, mantenendo la giusta distanza dagli eventi, pur regalando pathos e fotografando tutto ciò che c’è da fotografare senza occultare nulla, senza enfasi retorica e senza sfiorare minimamente la pellicola politica. È cinema di impegno civile, rigorosissimo, senza alcuna sovrastruttura e mai in cerca di facili happy end: è grande cinema, come se ne trova di rado in giro in questi anni. Un cinema che sembra fuoriuscire naturale e spontaneo, al contrario ricco di una ricerca maniacale, di uno stile e di una potenza d’amalgama – l’insegnamento del padre artistico, Sergio Leone, è ormai iscritto nel DNA del fu Callaghan – da far invidia a chiunque, non solo a Hollywood. Come in altre sue intense opere (anche qui si va ben oltre le due ore di durata), anche in Changeling emergono numerosi sottotesti, più rivelante dei quali è certamente la vicinanza e la spontanea empatia che Eastwood fa emergere nel trattare il tema dell’infanzia negata, sfruttata, vilipesa o violata. Come in Un mondo perfetto e in Mystic River, i bambini sono tristemente protagonisti di una vicenda che li vede sacrificati sull’altare di interessi pubblici e privati, nella fattispecie innocenti vittime di un potere che al contrario dovrebbe proteggerli, e calati in un inferno d’orrore insensato, annientati selvaggiamente da una follia che più abominevole non potrebbe essere.
Lo spettatore non può che partecipare incredulo, rapito da una vicenda che sa esser vera ma a cui umanamente è portato a non credere, perché l’abominio che gli si spalanca davanti agli occhi vede coinvolti tutti, dai media alle istituzioni. Ci si indigna e ci si commuove, e nessuna lacrima trattenuta, credetemi sulla parola, è a buon mercato. Si riflette e ci si interroga, una volta ancora, sul fatto che parliamo sempre di quella che oramai da più di un secolo ci viene dipinta come la patria della democrazia, quegli Stati Uniti d’America che di lì a poco sarebbero intervenuti per liberare l’Europa dal tiranno tedesco e che, contestualmente, proprio nel cuore della nazione, vivevano vicende terribili (vedere anche, sempre con la giusta dose di indignazione, l’intermezzo vissuto dalla Collins nell’ospedale psichiatrico) come quella che Straczynnki e Eastwood ci raccontano. E non mi dilungo oltre, per non andar fuori tema, ma chi mi vuol capire capisca.
Altro merito innegabile del bravo regista attore californiano è quello di saper valorizzare al massimo le star con cui lavora, come nel caso in questione accade con “viso di bambola” Angelina Jolie, truccata da bellezza anni Venti, sufficientemente credibile e misurata nel restituire la sua combattiva disperazione: pur non travolgendo per intensità, non demerita affatto e regge la scena per oltre due ore. Sempre in parte John Malkovich, nei panni del pastore presbiteriano e ottimi tutti gli attori di contorno, bambini compresi. Centrata la fotografia, intimista la colonna sonora, scritta e interpretata dallo stesso Eastwood.
Changeling segue a ruota quattro grandi opere di Clint Eastwood (nell’ordine: Mystic River, Million dollar baby, il dittico Flag of our fathers – Letters from Iwo Jima), alle quali è prossima per l’intensità e per uno stile che ha davvero pochi eguali. Eastwood e l’ultimo grande cantore d’America, affidabile e credibile perché lontano dall’ideologia e da sponsor politici; un grande protagonista dell’arte di celluloide che ha trovato la maturità espressiva a quasi sessant’ anni (ora ne ha più di settanta). Che gli dèi della settima arte ce lo conservino ancora per lungo, lunghissimo tempo.
Federico Magi, novembre 2008.
Edizione esaminata e brevi note
Regia: Clint Eastwood. Soggetto e sceneggiatura: J. Michael Straczynski. Direttore della fotografia: Tom Stern. Montaggio: Joel Cox, Gary Roach. Scenografia: James J.Murakami. Costumi: Deborah Hopper. Interpreti principali: Angelina Jolie, John Malkovich, Jeffrey Donovan, Colm Feore, Jason Butler Harner, Amy Ryan, Michael Kelly II, Devon Conti, Eddie Alderson, Gabriel Schwalenstocker, Jason Ciok, Den Gearhart, Geoffrey Pierson, Gattlin Griffith. Musica originale: Clint Eastwood. Produzione: Clint Eastwood, Brian Grazer, Ron Howard e Robert Lorenz per Imagine Entertainment, Malpaso Productions. Origine: Usa, 2008. Durata: 141 minuti.
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