Cesare Pavese, che molti si ostinano a considerare un testardo narratore realista, specializzato in campagne e periferie americano-piemontesi, ci scopre in questi Dialoghi un nuovo aspetto del suo temperamento. Non c’è scrittore autentico, il quale non abbia i suoi quarti di luna, il suo capriccio, la musa nascosta, che a un tratto lo inducono a farsi eremita. Pavese si è ricordato di quand’era a scuola e di quel che leggeva: si è ricordato dei libri che legge ogni giorno, degli unici libri che legge. Ha smesso per un momento di credere che i suoi totem e tabù, i suoi selvaggi, gli spiriti della vegetazione, l’assassinio rituale, la sfera mitica e il culto dei morti, fossero inutili bizzarrie e ha voluto cercare in essi il segreto di qualcosa che tutti ricordano, tutti ammirano un po’ straccamente e ci sbadigliano un sorriso. E ne sono nati questi Dialoghi.
(Cesare Pavese nella prima edizione dei Dialoghi con Leucò, Einaudi, 1947)
Pavese Pavese Pavese Pavese. Cesare Pavese. Cesare Pavese. 6 sillabe, 12 lettere. Nome e Cognome. 6+6=12. Devo e voglio scrivere questo pezzo. È difficile. Scrivere di e per Pavese. Sono qui. Lui è qui. Siamo in due. Quando finii di leggere i Dialoghi con Leucò, più di un anno fa, rimasi meravigliato dal fatto che ne avessi sentito parlare come di un oggetto estraneo nella produzione pavesiana, qualcosa come un UFO. Mi sembrava così dannatamente Pavese che non capivo come si potesse anche solo provare a pensare che questi Dialoghi potessero rappresentare come un elemento disturbante all’interno della sua opera. Devo dire che non credo di capire molto di critica e cose di questo tipo. Forse neppure ho letto con la dovuta attenzione le critiche a questo lavoro. Non so. Leggere è una cosa molto difficile ed impegnativa. Leggere credo significhi dare vita alla rappresentazione del mondo che stiamo leggendo. Mondo che può essere anche solo una stanza, un filo d’erba, non so. In somma, per me leggere è un gran casino. Spiegare poi quello che si è letto, o anche solo tentare di dare voce alla nostra personale lettura…un’altra sfida. E quello che devo/voglio fare è proprio questo. Mamma mia. In che guaio mi sono messo. Franco mi ha dato dei consigli musicali, ma qui c’è solo la ventola del computer. Sto tergiversando.
Pavese Pavese Pavese Pavese. Ossessionante. Cesare Pavese. Un basso continuo. Un paesaggio della letteratura, su cui si muovono personaggi. Quello che ha fatto Pavese nei suoi Dialoghi con Leucò è esattamente quello che scrive nella presentazione alla prima edizione. Che ho messo qua sopra.
Non a caso, è una presentazione.
Non farò altro che cercare di leggerla.
Pavese la scrive, e lo fa in terza persona. Un modo per prendere le distanze da ciò che ha scritto, per analizzarlo in maniera più oggettiva, e per dare anche un tono ironico. Inizia con il suo nome e cognome, “Cesare Pavese”, ed ecco che ci dice come gli altri lo vedono, come molti lo credono, “che molti si ostinano a considerare un testardo narratore realista, specializzato in campagne e periferie americano-piemontesi”. A me viene già da sorridere. Prende questi “molti” e gli dona caratteristiche che loro danno a lui. Questi “molti”, “si ostinano”, e l’ostinazione è del testardo. Rovescia la frittata. Sembra quasi di vederlo sorridere, dare un colpetto di tosse, “ehm”. Non si considera “narratore realista” (aggiungo, né lo è) e si mette a giocare con i critici. “specializzato in campagne e periferie americano-piemontesi” è un altro tassello che aggiunge: vi fate accecare dalle mie ambientazioni e dalla mia risaputa passione per la letteratura americana. “ci scopre in questi Dialoghi un nuovo aspetto del suo temperamento.” e qui fa la parte del critico, si cala in tutto e per tutto nelle scarpe di chi dà quei giudizi sulla sua opera, e osserva questa sua nuova tappa secondo il modo di leggere di queste altre persone. Inevitabilmente, i Dialoghi non saranno che “un nuovo aspetto del suo temperamento”. Nuovo, per chi lo giudica un testardo narratore realista etc. E continua, lo immagino a scrivere questa presentazione con un sacco di sorrisi ad intercalare, anche cattivi (ci sono sorrisi cattivi, sì, per me), e che si ferma ogni tanto a controllare e dosare le parole nel modo giusto, per farle essere affilate come lame, e dolci come un taglio fatto sotto acqua calda.
“Non c’è scrittore autentico, il quale non abbia i suoi quarti di luna, il suo capriccio, la musa nascosta, che a un tratto lo inducono a farsi eremita.”
Ecco, scrittore autentico. Si può dire di uno scrittore autentico che è “specializzato”? Dargli una specializzazione significa ridurlo a singoli elementi che, certo, sono presenti nella sua opera, ma che staccati da essa perdono ogni valenza, sono come parole copiate da altri, e non scritte di proprio pugno. Ma ancora vuol far penetrare la lama, “i suoi quarti di luna, il suo capriccio…” e questo sarebbero i Dialoghi, un suo capriccio, per coloro che lo considerano narratore realista.
“Pavese si è ricordato di quand’era a scuola e di quel che leggeva: si è ricordato dei libri che legge ogni giorno, degli unici libri che legge.”
Qui, di nuovo, contraddice ciò che ha scritto nella frase precedente. Si può considerare un capriccio qualcosa che si rifà in maniera così diretta e pervasiva alla vita di un uomo? E possiamo pensare che nei suoi libri, precedenti a questo, Pavese non avesse sempre ben presenti i libri che legge, “gli unici libri che legge”? Come possono questi Dialoghi essere estranei al resto della sua produzione? Non lo sono affatto. Anzi, sono un dono che Pavese ha fatto a tutti noi che lo leggiamo. Ci dice, non state ad ascoltare chi scrive certe cose su di me, e se anche ciò che scrivo non fosse esattamente come lo penso, di sicuro non è come lo giudicano. In questa presentazione scrive cosa i critici dicono di lui e delle sue opere, e ne rovescia le affermazioni. Non mettendosi muro contro muro, ma usando la terza persona e parlando come lettore e critico della propria opera, facendo cadere in contraddizione una per una le critiche fattegli.
“Ha smesso per un momento di credere che i suoi totem e tabù, i suoi selvaggi, gli spiriti della vegetazione, l’assassinio rituale, la sfera mitica e il culto dei morti, fossero inutili bizzarrie e ha voluto cercare in essi il segreto di qualcosa che tutti ricordano, tutti ammirano un po’ straccamente e ci sbadigliano un sorriso. E ne sono nati questi Dialoghi.”
La fine. La nascita dei Dialoghi. L’inizio. Forse nelle sue opere non ha cercato nei selvaggi, nell’assassinio rituale, nella sfera mitica e il culto dei morti? Non sono, questi temi, già presenti nei suoi scritti? Siamo sicuri? Certo, qui ha fatto un’operazione diversa, gli ha reso l’ambientazione che lui sente originaria, l’ambientazione mitica.
La differenza fra i Dialoghi e il resto della sua produzione sta qui. Pavese non camuffa i personaggi mitici con nomi moderni, né gli ambienti. Se la sua attualizzazione del mito passava attraverso il paesaggio piemontese e personaggi comuni, qui la rende mettendo in bocca a personaggi del mito pensieri che sono dell’oggi.
Per me Pavese è un narratore mitico. Uno scrittore che, in ogni sua opera, ricerca il senso del mondo. Della vita. E lo cerca nel mito. E del mito tenta la spiegazione razionale. Mito che spesso è spiegazione irrazionale di fatti naturali. Mito, quello classico, che attualizzava fatti accaduti in un passato remoto. Mito che antropomorfizzava ogni cosa al fine di portarla a comprensione umana. Pavese, nei suoi racconti e romanzi, fa la stessa cosa. Antropomorfizza il senso del mondo. Mitizza l’attualità. O rende attuale il mito. Per spiegarlo, il mito, lo deve avvicinare, e non può che avvicinarlo da un punto di vista spazio-temporale, portando i protagonisti nel mondo moderno, e nei luoghi che a lui appartengono e da cui lui è appartenuto. Mito e ragione. Come conciliare le due cose? Insegue la conciliazione ovunque, senza mai raggiungerla, prendendo sempre più consapevolezza del suo correre a vuoto.
L’opera di Pavese è ricerca del senso del mondo, e ricerca del proprio posto nel mondo. I suoi scritti sono passi nella consapevolezza, nella coscienza di sé come uomo, oltre che passi verso una scrittura sempre più mitica. Il mito è l’uomo nel suo profondo, e spiegandolo si può arrivare all’uomo. E come si può comprenderlo se non reiterandolo in modi diversi, se non ci si immerge in esso fino ad esserne completamente avvolto?
Il suo realismo, se così lo vogliamo definire, è improntato solo ed esclusivamente ad una moderna mitopoiesi. Ma anche qui, non si rivela forse il suo amore (forse anche una certa invidia) per la letteratura americana? Letteratura giovane e, si può dire, senza storia, si crea miti fondandoli sulla realtà quotidiana, come la corrispettiva italiana non è più in grado di fare, autolegatasi con un nodo scorsoio alla produzione letteraria di secoli e secoli precedenti. Perché la letteratura americana? Perché la vede come la nuova letteratura mitica. Come una letteratura capace di creare, il mito. E cos’è il mito? Torniamo lì.
In questi Dialoghi Pavese opera una riflessione profonda sulla scrittura, o meglio mostra qual è la sua, cercando di non mettergli troppi veli addosso. Di fronte alla cecità, cerca di rivelare in altro modo la sua essenza, sperando di essere compreso. Compreso. Compreso. Compreso.
La finisco qua.
Edizione esaminata e brevi note
Cesare Pavese(Santo Stefano Belbo, Cuneo, 1908-Torino, 1950). Romanziere, poeta, saggista e traduttore italiano. Dottore in Lettere nel 1930 con una tesi “Sulla interpretazione della poesia di Walt Whitman”, fu tra i fondatori, nel 1933, della casa editrice Einaudi.
Cesare Pavese, Dialoghi con Leucò, Einaudi, Torino, 1999, con introduzione di Sergio Givone (splendida). Un’ottima edizione, direi, con un’antologia della critica che arriva fino al 1989.
Prima edizione: Cesare Pavese, “Dialoghi con Leucò”, Einaudi, Torino, 1947.
La finisco qua. Davvero.
ab, dicembre 2006, Lankelot
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