Stalin lo chiamano Stalin per via dei baffi che porta. Ha appena compiuto 18 anni e deve gestire la rabbia, il suo disturbo di sempre. Bianca, invece, è una ragazza coi capelli lunghi e sottili, bellissima e cieca. Entrambi recepiscono il mondo come possono: Stalin lo raccoglie con la sua immancabile videocamera, Bianca lo racconta con poesie che detta ad un registratore. La loro città non ha nome, così come resta anonimo tutto lo spazio in cui i due protagonisti del secondo romanzo di Iacopo Barison si muovono. Non ci sono mai coordinate precise perché, in fin dei conti, non servono. Il mondo sembra appiattito e muto sotto la neve o la nebbia o il ghiaccio, i luoghi sono disseminati di rovine, fatiscenze e degrado. Un decadimento che deve aver toccato prima le persone.
Stalin ama Bianca in maniera speciale e platonica. Nella scena iniziale li vediamo dentro uno stadio vuoto a scambiarsi pensieri “La nostra quotidianità ha una forma rettangolare, è innevata, e di per sé non ha alcun senso“. C’è quel pizzico di nichilismo che, chissà perché, affascina e contorna i discorsi di tutti i ragazzi. Anche quelli di Stalin e Bianca. Il custode dello stadio è amico di Stalin che lo chiama Jean per via della somiglianza con Gabin. Stalin lavora in una multisala ma se Jean glielo chiede fa anche qualche lavoretto non proprio pulito. Va così. Per i suoi 18 anni Stalin non vorrebbe neppure la torta, eppure sa che sua madre, quella madre impalpabile ed astratta, una torta gliela farà trovare sul tavolo. Oltre ad un biglietto che porta scritto “Riuscirai sempre a fare l’impossibile, perché per me sei un supereroe“. Stalin sa di non avere niente a che fare con i supereroi, anzi si sente sconfitto, debole e triste. Gira con la sua Vespa alla ricerca di immagini da fissare con nella videocamera e aspetta che Bianca esca da scuola.
Compiere 18 anni deve pur significare qualcosa: “Forse, dovrei organizzare un funerale per la mia adolescenza, e lasciar perdere i baffi e la videocamera e la certezza di essere meglio degli altri, superiore a chiunque ami l’ordine e la carta intestata e il lavoro d’ufficio“. Peccato però aver trovato la torta già tagliata, il marito della madre di Stalin, evidentemente, deve averne presa una porzione, “un gesto deplorevole“, pensa Stalin. Ed è proprio contro il marito di suo madre, l’ex raver, “uno che a vent’anni respirava ketamina e socchiudeva gli occhi e improvvisava metafore, per poi sdraiarsi e addormentarsi nel fango[…] e adesso fa l’assicuratore e prende i mezzi pubblici all’ora di punta, portandosi dietro un’iconica valigetta di pelle“, che prorompe la crisi di rabbia del ragazzo. Stalin sente l’allarme che conosce così bene e le parole irritanti dell’uomo non fanno altro che facilitare il colpo e poi gli schizzi di sangue e poi la bottiglia rotta e poi un altro colpo. Stalin deve scappare. E lo fa con Bianca al suo fianco. La fuga era già nell’ordine delle cose, bastava un pretesto qualsiasi e pensare di aver ucciso il patrigno è una ragione sufficiente.
La fuga diventa viaggio da una provincia degradata verso una capitale probabilmente ancora più guasta ma da raggiungere in qualche modo. Il paesaggio è sempre spettrale, le atmosfere costantemente apocalittiche. Non sembra più esserci più nulla di vivibile o possibile al mondo. “Per le strade della capitale, respireremo la crisi di un’epoca che ha fatto il suo tempo. Le banche, i centri commerciali, i ristoranti di lusso. La speranza di un ritorno alle origini è svanita nel nulla: ormai, le persone si augurano di non svanire anche loro. Scomparire da un momento all’altro, disperdersi nello spazio e chiamare le costellazioni coi nostri nomi. Sarebbe bello e agghiacciante allo stesso tempo. Svincolarci da un pianeta i cui orizzonti sbiadiscono, diventando scorci anonimi in bianco e nero“. I due ragazzi si uniscono a degli artisti di strada e vanno a dormire in una costruzione mai ultimata. Patiscono il freddo e la fame, ma sono insieme e si completano.
“Stalin + Bianca” rimane fondamentalmente una storia d’amore, delicata ed incerta come tutte le storie d’amore nascenti. Un atto di coraggio, sostanzialmente. Tutto il coraggio che ci vuole per riuscire a perdurare e crescere nonostante la disgregazione di un intero pianeta. Atomi e molecole e particelle che appaiono costantemente nella scrittura di Barison. Minuscole entità di cui tutto è fatto e a cui tutto è dovuto. Si sente l’influenza della fantascienza, dei fumetti e di tanto cinema. Nonostante Iacopo Barison sia molto giovane, dimostra di possedere già tutti gli strumenti per affermarsi nel mondo della letteratura. Il suo scrivere mi piace perché è scheletrico ed essenziale. Le frasi procedono minime e a ritmo serrato. Probabilmente Barison, come molti scrittori nati alla fine degli anni ’80, è cresciuto dentro il web e ne ha afferrato le regole comunicative. Oltre al merito di aver già elaborato e acquisito uno stile personale e riconoscibile. “Stalin + Bianca” è senza dubbio un romanzo degno di interesse che, in tempi in cui si pubblica di tutto e di peggio, non è assolutamente un elemento trascurabile.
Edizione esaminata e brevi note
Iacopo Barison, “Stalin + Bianca“, Tunué, Latina, 2014.
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