Quindici minuti. Forse venti. Tanto basta per leggere il breve memoir di Violette Ailhaud. Un libricino che ha alle spalle una vicenda abbastanza singolare ed affascinante. La Ailhaud scrisse questa storia, la sua storia, nel 1919 e la lasciò in un cassetto. Alla sua morte, nel 1925, gli eredi trovarono tra le carte del testamento una lettera che, secondo le precise indicazioni di Violette, nessuno avrebbe dovuto toccare fino all’estate del 1952. Solo in quella data la busta venne aperta e si scoprì che conteneva un manoscritto. L’autrice specificava che dovesse essere affidato al maggiore dei suoi discendenti, rigorosamente di sesso femminile e di età compresa tra i quindici e i trent’anni. Caratteristiche incarnate da Yvelyne che, nel luglio del 1952, si ritrovò tra le mani un testo che è stato poi pubblicato col titolo di “L’homme semence“, “L’uomo seme“.
Violette Ailhaud racconta quanto avvenuto nel 1852 nel piccolo borgo rurale della Provenza in cui è nata. Al tempo aveva poco più di 16 anni. “Ho deciso di raccontare quel che è successo dopo l’inverno del 1852 perché, per la seconda volta in meno di settant’anni, il nostro villaggio ha perso tutti i suoi uomini“. Luigi Napoleone Bonaparte ha appena acquisito il potere con un secco colpo di Stato. Parigi, nella quale solo nel 1848 era stata istituita la Repubblica, non dimostra grande indignazione e, in generale, in quasi tutta la Francia non ci sono reazioni particolari alla sopraffazione di Bonaparte. Solo in quella terra di braccianti, contadini, artigiani e piccoli borghesi che è il Midi, l’area sud orientale della nazione, molti si sollevano contro Napoleone. Gli insorti si organizzano e, nel dicembre del 1951, cercano di restaurare ciò che Napoleone ha tanto repentinamente cancellato, ma la repressione da parte dei bonapartisti-monarchici-clericali è spietata. Ben presto gli insorti vengono stanati e uccisi. Tutti gli uomini vengono arrestati e condotti via indipendentemente dal fatto che abbiano preso parte o meno all’insurrezione. Viene arrestato il padre di Violette, viene arrestato Martin, il ragazzo di cui è innamorata, vengono arrestati tutti gli altri maschi del paese.
Le donne e i bambini sono gli unici rimasti. Ed è un vuoto che si sembra più potente di un lutto, più atroce di un delitto. “Sono più di due anni che non vediamo un uomo. Gli ultimi, i nostri, sono partiti nel febbraio del 1852 dopo una retata dei gendarmi che di spingevano con i loro fucili“. Da quel momento più nessuno è salito fino al paese. Le donne si sentono vedove pur non essendosi mai sposate. Violette ha perso il suo Martin, l’uomo che l’avrebbe resa moglie e madre. Senza l’altra metà dell’umanità, nessuna donna avrebbe più potuto generare figli. Per questo tutte insieme sigillano un patto molto speciale: “Avevamo detto tutte la stessa cosa in mille modi diversi. Ma eravamo tutte d’accordo: un giorno sarebbe arrivato un uomo – se ancora ce n’erano – e ce lo saremmo dovute dividere, per la vita del nostro ventre“. La voce ancestrale della vita, la voce primordiale della riproduzione richiama le femmine del piccolo villaggio e si fa giuramento. “Avevamo previsto tutto per l’arrivo di un uomo. Il primo obiettivo sarebbe stato il suo seme, poi le sue braccia, infine la sua presenza. Il suo amore, mai“.
E un giorno, mentre sono tutte impegnate ad inforcare fieno, dalla valle sale un uomo. Il primo che vedono dopo tanto tempo. “I nostri corpi vuoti di donne senza marito si sono messi a risuonare in modo inconfondibile“. Le donne restano senza fiato e senza parole. Sapevano che un uomo, prima o poi, sarebbe arrivato, lo avevano immaginato e costruito nella mente come si fa con gli oggetti che più si desiderano, ma trovarselo a pochi metri è paralizzante. L’uomo si avvicina e sfiora il braccio di Violette. “Io lo guardo e da quell’istante so di appartenere a quell’uomo. E so, nello stesso tempo, che dovrò dividerlo“.
“L’uomo seme” può essere senza dubbio definito un piccolo gioiello. Una scrittura scarna, incisiva, possente. Una storia che ci porta fin nelle viscere del desiderio e dell’urgente conquista della sopravvivenza. C’è qualcosa di brutale, di animalesco nell’istinto tutto femminile di volere a tutti i costi un figlio. C’è anche una profonda dignità e c’è una passione che, forse, gli uomini non potranno mai afferrare pienamente. Come detto sopra, Violette ha scritto questo racconto nel 1919, quando aveva più di ottanta anni, eppure “L’uomo seme” gode di una freschezza e di una levità inaspettate. Poetico, ispirato e sensuale allo stesso tempo. Un libro che mi ha conquistata ed affascinata fin dalle prime righe. Mi spiace solo non essere riuscita a scoprire molto su Violette Ailhaud di cui non ho trovato praticamente nulla e che, temo, non abbia scritto altro se non questo splendido, minuscolo capolavoro.
Edizione esaminata e brevi note
Violette Ailhaud, “L’uomo seme“, Playground, Roma, 2014. Traduzione di Monica Capuani. Titolo originale: “L’homme semance“, 2006.
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