“Bella mia” è stato tra i dodici libri selezionati per il Premio Strega 2014. Poi escluso dalla “finalissima” a cinque. Che dire? Ce ne faremo una ragione. D’altro canto “Bella mia” è un buon romanzo ed è esattamente ciò che interessa a noi lettori. Dell’esordio di Donatella Di Pietrantonio ha parlato su Lankelot Gianfranco Franchi in una scheda che ricordo di aver letto e che ho riletto per l’occasione. Di “Mia madre è un fiume” (Elliot, 2011), scrive Franchi, “ha la sconnessione, la superba emotività, qualche pretesa di letterarietà e un pizzico di sacrosanta artificiosità…“. Caratteristiche che non mi è sembrato di rintracciare in “Bella mia” che, in realtà, non mi è parso sconnesso, né emotivamente superbo, né particolarmente artificioso.
“Bella mia” affonda in ciò che resta del terremoto delle ore 3.32 del 6 aprile 2009 a L’Aquila. Un terremoto che ha lasciato una città, una terra intera e tanta gente profondamente inquiete e senza troppe speranze. “L’Aquila bella me, te voglio revete’” (L’Aquila bella mia, ti voglio rivedere) è il canto popolare aquilano da cui la Di Pietrantonio ha tratto il titolo del suo secondo romanzo. Rivedere L’Aquila come era, temo, sarà impossibile. In un libro di Giuseppe Caporale, che ho letto e recensito qui qualche anno fa, si paventava una data possibile: 2079. Con tutti i “forse” del caso. Eppure Caterina, la protagonista di “Bella mia”, parla di ricostruzione abbastanza spesso. Caterina abita nelle famose C.A.S.E. (Complessi Antisismici Sostenibili ed Ecocompatibili) volute da Berlusconi e messe in piedi in pochissimo tempo. Con lei ci sono sua madre e suo nipote Marco: tutti sopravvissuti ai crolli di quei tremendi, infiniti, devastanti secondi della scossa delle 3.32.
Caterina oltre ai calcinacci e all’intonaco frantumato, in quella notte del 6 aprile 2009, si è ritrovata addosso un ruolo che non immaginava di dover sostenere, quello di madre putativa. Sua sorella gemella, Olivia, morta sotto una trave della casa dalla quale Caterina e Marco erano riusciti a fuggire pochi istanti prima di lei, le ha lasciato un’incombenza che spesso si fa insopportabile. “Non riesco ad amarlo tutto, questo ragazzo. Alto, secco, un corpo di linee spezzate e mai curve, una debolezza improvvisa nel disegno delle gambe, appena sotto il ginocchio. La nonna lo tratta sempre da bambino, non so come regolarmi, io. È un adolescente, a volte sembra meno“. Crescere Marco al posto di sua madre sapendo di essere la copia apparente di Olivia è opera ardua. Caterina, infatti, è sempre stata la gemella debole, quella da difendere, quella che viene dopo. Olivia era la metà forte, impetuosa, carismatica. La sua morte ha scavato un buco nelle vite di chi è rimasto. Soprattutto in quella di Marco.
La colpa di essere vivi è esattamente quella che ho letto in tanti altri libri che parlavano di lager e Shoah. Il senso non cambia. Purtroppo non c’è una spiegazione valida né una ragione logica che spieghi ai sopravvissuti perché sono ancora al mondo mentre gli altri, le vittime, non ci sono più. “E se una gemella doveva morire, non ho voluto essere io la superstite. La lotteria del terremoto ha estratto a caso e li ha spaiati, Olivia e la sua creatura. Ha salvato me, e a volte ho nostalgia della fine che mi è stata negata. Non sono madre, lui non è frutto del mio ventre magro. E’ un altro, nato da un’altra quasi uguale a me. Io non lo amo, spesso non lo amo, quando rientro a casa e annuso la sua presenza mi sento subito un disagio nello stomaco e poi cado sotto gli spari dei suoi occhi. Mi spaventa, come l’enormità del mio compito. Dovrei essergli mamma di scorta. Invece sono ancora la supplente di prima nomina incapace di affrontare la classe turbolenta“.
Il lutto non scolora, neppure col tempo. E’ negli incubi che non lasciano scampo. E’ nelle visite quotidiane al cimitero. E’ in un figlio che tiene lontani tutti dalle proprie mancanze. E’ in discorsi che si lasciano sospesi perché farebbero ancora troppo male. La vita di chi c’è non può dissociarsi dalla morte di chi è stato portato via a tradimento. Eppure la tensione ancestrale degli umani conduce sempre verso una risalita dal buio: faticosa, lenta, titubante eppure indispensabile. Donatella Di Pietrantonio sembra conoscere le radici di certi dolori e li percorre in queste pagine con la dignità e il rispetto di chi riesce a non cedere troppo facilmente alle comodità del pathos. Non è commovente né ingenua. Scrive con toni aspri, concisi, secchi che sanno farsi spesso lirici senza mai scadere in un’artificiosità pericolosa e fasulla. Pensare di fare letteratura con materia come quella scelta dalla Di Pietrantonio non è semplicissimo perché il rischio di divenire lagnosi e prevedibili è altissimo. Lei ha scelto di raccontare il terremoto dal dopo-terremoto, quello che i media hanno dimenticato in fretta, così come i politici e gli amministratori.
Edizione esaminata e brevi note
Donatella Di Pietrantonio è nata ad Arsita, in provincia di Teramo, nel 1963. Scrive racconti, poesie e fiabe da quando era una bambina ma il suo esordio nel mondo della letteratura arriva solo nel 2011 grazie al romanzo “Mia madre è un fiume” pubblicato da Elliot e vincitore di numerosi premi. Sempre per Elliot, nel 2014, esce “Bella mia”. La Di Pietrantonio vive a Penne dove lavora come dentista pediatrico.
Donatella Di Pietrantonio, “Bella mia“, Elliot, Roma, 2014.
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