Da un po’ porto avanti una piccola “crociata” personale. Piccola e quasi impercettibile, direi. La mia “crociata” consiste nel dare più spazio di lettura alle scrittrici. Nulla da rimproverare agli scrittori, sia chiaro, ma ho notato che, su Lankelot ed anche altrove, le donne che scrivono sono meno degli uomini che scrivono. Sarebbe interessante, anche se faticoso, pareggiare i conti, per una sorta di rispetto di “quote genere” che, tra l’altro, sembra andare tanto di moda recentemente. Per questo, un po’ di tempo fa, ho chiesto ad Andrea Consonni di consigliarmi qualche buona scrittrice. E lui ha fatto parecchio di più: ha scritto un bel post sul suo blog col quale ha suggerito, a me e a chiunque, una serie di libri e nomi. Tra questi anche quello di Aimee Bender, a me del tutto sconosciuta fino ad oggi.
“Un segno invisibile e mio” è quindi la mia prima Bender. Sconcertante, imprevedibile, divertente, disorganica, surreale ed allegramente macabra. Una sfilza di qualificativi che, secondo me, si addicono perfettamente al libro che ho appena terminato. Di certo non è esattamente rassicurante iniziare la lettura di un romanzo con l’immagine di una ragazza che per il suo ventesimo compleanno si regala un’ascia. La sensazione è quella di trovarsi al cospetto di un personaggio con qualche piccolo problema. E, in effetti, Mona Gray (la ventenne con l’ascia) qualche problemino ce l’ha sul serio. Oltre ad avere una passione smodata per la matematica, che le fa vedere numeri ovunque, oltre a mangiare pezzi di sapone e tamburellare ossessivamente sul legno appena può, Mona è una campionessa dello smettere: “Niente piano. Niente dolci. Niente atletica. Niente. Sono innamorata dello smettere. A suo modo è un’arte, se ci pensate. Smettere bene richiede un innato senso della bellezza; bisogna saper sentire il momento della svolta, proprio quando il desiderio fa la sua comparsa, quello è il momento di darci un taglio, giù deciso, l’istante in cui lo smettere è maturo come una pesca che si fa dolce sull’albero: crack, si spacca il picciolo, la pesca cade per terra, nera e argento di mosche“.
Sicuramente un tipo strampalato questa Mona Gray. E’ figlia unica di una madre proprietaria di un ufficio di informazioni turistiche e di un padre dermatologo che però, ad un certo punto, ha cominciato a sbiadire perdendo vitalità, passione e salute. Mona viene chiamata a fare l’insegnante di matematica in una scuola elementare e qui si trova a contatto con un gruppetto di piccoli studenti ai quali insegna la magia dei numeri a modo suo. Tra i bambini della sua classe c’è Lisa Venus, quella con i capelli da ratto, che diventa in fretta la sua allieva preferita, forse perché è la più stramba (non perché gli altri bambini siano propriamente normali) o forse perché si presenta tra i banchi con un tubicino per l’endovena attorno alla testa come fosse una corona proclamando a tutti di essere la Principessa Cancro (la madre di Lisa è in ospedale perché malata terminale). Il tubicino che ha in testa Lisa non è altro che uno zero, il suo zero, quello da presentare per “Numeri e Materiali”. E a modo suo anche Mona prende parte a “Numeri e Materiali” quando sceglie di portare in classe l’ascia acquistata dal signor Jones, il vicino di casa e proprietario della ferramenta che appende al collo numeri di cera il cui valore cambia in base al suo umore del giorno. Un’ascia che può essere un sette, volendo.
“Un segno invisibile e mio” è un campionario di personaggi surreali e grotteschi ma è anche una sorta di favola per adulti dai toni lugubri, quelli che spesso affascinano di più perché lasciano spazio all’imprevedibilità e alla cristallina crudeltà degli eventi. Qualcosa di simile a “Coraline e la porta magica” o a “La sposa cadavere”: stesse atmosfere, stessi colori, stesso dolce-amaro. La narrazione della Bender è cinica, sarcastica, malinconica ma sa rimanere comunque brillante e piacevole. E’ una scrittrice piena di invenzioni e paradossi, di peripezie immaginifiche e contrasti deformi. La sua Mona è l’incarnazione di una giovanissima donna che cerca di dare ordine a ciò che ordine non può avere. La sua ossessione per i numeri, le sue manie nel saper controllare le proprie emozioni e smettere quando vuole sono il suo modo, un po’ goffo e un po’ inefficace, di gestire la propria esistenza e, soprattutto, di salvare suo padre da quel grigio che lo sta divorando. La Bender ha sicuramente un ineccepibile talento eppure credo che possa andare oltre e scrivere qualcosa di più grande, architettato e complesso.
Edizione esaminata e brevi note
Aimee Bender, “Un segno invisibile e mio“, Edizioni Beat, Milano, 2011. Prima edizione Minimum Fax (2002). Traduzione di Damiano Abeni e Martina Testa. Titolo originale: “An Invisible Sign of My Own”, (2000).
Pagine Internet su Aimee Bender: Sito uff. (en) / Wikipedia / Twitter
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