Nostra Signora del Nilo è un liceo tra le nuvole del Ruanda. L’hanno costruito in un luogo in cui né i maschi né le tentazioni della città possono arrivare. Lontano, lì dove le ragazze è meglio che stiano. “Perché le signorine del liceo sono destinate a un bel matrimonio. Ci devono arrivare vergini, se non rimangono incinte prima. Vergini è meglio. Il matrimonio è una cosa seria. Le convittrici del liceo sono figlie di ministri, di militari d’alto rango, di uomini d’affari, di ricchi commercianti“. Nostra Signora del Nilo è a 2500 metri di altitudine, meglio: 2493, come puntualizza suor Lydwine, professoressa di geografia. Dal liceo alle presunte sorgenti del Nilo non c’è molta strada da fare, basta prendere un sentiero sassoso che si muove tra le creste dei monti e, proprio lì, tra le rocce che incombono sulla sorgente, sotto una baracca di lamiera, c’è lei: Nostra Signora del Nilo. Una madonna nera. “È stato il monsignor vicario apostolico che ha deciso di erigerla. Il re aveva ottenuto dal sommo pontefice di consacrare il paese a Cristo Re. Il vescovo ha voluto consacrare il Nilo alla Vergine“.
L’anno scolastico inizia esattamente con le piogge e con esse termina. Le ragazze arrivano, come ogni anno, alla spicciolata. Veronica, Gloriosa, Virginia, Goretti, Immaculée, Frida, Godelive. Nomi che, in realtà, non hanno niente a che fare con quelli autentici africani. Una volta giunte a Nostra Signora del Nilo ogni ragazza ha un nome “cristiano” ed ognuna di esse rappresenta una “quota”, quella stabilita dai colonizzatori belgi: una tutsi ogni dieci hutu. Una specie di elemosina etnica che Veronica e Virginia, entrambe tutsi, patiscono in nome della stirpe che incarnano e di cui non hanno alcuna colpa.
La narrazione procede, più o meno placidamente, tra lezioni, preghiere, qualche rivalità amorosa, un po’ di invidia per chi è più bella o più bianca e la scoperta dei piccoli grandi misteri adolescenziali. Il mondo delle liceali di Nostra Signora del Nilo è una stravagante mescolanza di morale cattolica e credenze africane. Accanto alle raccomandazioni di Padre Herménégilde e ai perenni pudori della madre superiora si collocano le tradizioni arcaiche di un popolo che non ha mai perso il contatto con le radici pagane. Ragazze cresciute secondo logiche europee ma che, all’occorrenza, si recano dal guaritore Kagabo (il tenente del diavolo, secondo le suore) o da Nyamirongi, la donna che sa comandare la pioggia, per chiedere un filtro d’amore. La religione dei colonizzatori si amalgama abbastanza facilmente con la superstizione primordiale senza trovare autentici inciampi.
Siamo nel Ruanda degli anni ’70. Il genocidio del 1994 è apparentemente lontano, ma l’odio razziale degli hutu verso i tutsi serpeggia subdolamente tra le studentesse di quinta. Gloriosa è figlia di un influente uomo politico hutu e, all’interno del liceo, gestisce con arroganza il potere che le discende dal padre. Non tollera la presenza delle tutsi e non nasconde in nessuna circostanza il suo desiderio di scacciare gli “inyenzi“: scarafaggi. Ed è sempre Gloriosa che, un bel giorno, si rende conto che il naso della statua nera di Nostra Signora del Nilo ha qualcosa che non va, è troppo piccolo e dritto: “… io non voglio una Santa Vergine col naso tutsi. Non voglio pregare davanti a una statua che ha il naso di una tusti“. Il progetto della giovane hutu è chiaro: trasformare il naso tutsi di Nostra Signora del Nilo in un naso hutu. Ed è esattamente da questo intento di Gloriosa che si generano una serie di eventi che, ingigantendosi più di quanto ipotizzabile e gonfiati da qualche menzogna costruita ad arte, porteranno nel liceo ruandese quella stessa violenza e una versione ridotta di quello stesso sterminio che travolgerà l’intero Paese per cento interminabili giorni, dall’aprile al giugno del 1994, durante i quali saranno massacrati più di 800.000 persone mentre un altro milione sarà costretto alla fuga.
Il messaggio che Scholastique Mukasonga trasmette attraverso questo suo riuscitissimo romanzo sta proprio nel rimarcare che il seme di un odio tanto feroce non è germinato né per caso né troppo in fretta. Il genocidio ruandese ha origini profonde e lontane nel tempo. E’ un mostro che è stato nutrito poco alla volta e per decenni fino a quando non ha trovato il suo disumano sfogo in quel tragico periodo di venti anni fa. Scholastique Mukasonga ha perso, in tutto, 37 familiari durante il genocidio dei tutsi. La sua arte, il suo raccontare non è altro che un modo per mantenere viva la memoria. Lei non era accanto alla sua gente, sente la colpa di chi sopravvive e non può che piangere i propri cari. In un suo articolo la Mukasonga spiega che è stato proprio il genocidio a fare di lei una scrittrice: i morti possono sopravvivere in lei proprio grazie a ciò racconta nei suoi libri. Un compito estremamente impegnativo che la scrittrice africana ha affrontato in “Nostra Signora del Nilo” in maniera intelligente e penetrante. Il liceo di cui racconta non è altro che il microcosmo-specchio di un Paese intero. La bellezza di questo romanzo, oltre che nell’elaborazione di una storia emblematica, sta anche in una scrittura agile, leggera ma possente. Elementi utili a rendere la Mukasonga una delle voci più stimolanti e valide del panorama letterario attuale.
Edizione esaminata e brevi note
Scholastique Mukasonga, “Nostra Signora del Nilo“, 66THAND2ND, Roma, 2014. Traduzione dal francese di Stefania Ricciardi. Titolo originale “Notre-Dame du Nil”, Éditions Gallimard, Parigi, 2012.
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