“Un pasto in inverno” somiglia più a una novella che a un romanzo. Si legge in un paio d’ore, a voler essere generosi. E’ scritto in una lingua semplice e diretta e, per certi versi, sembra arrivare da un tempo lontano. Un tempo in cui i soldati raccoglievano le loro memorie, scrivevano episodi legati alla loro esperienza di guerra e di morte per non permettere al tempo di consumarla e dissolverla. Lo scenario che accoglie i pochi personaggi della storia è sempre essenziale e scarno, proprio come la scrittura di Mingarelli che, evidentemente, non ha bisogno di troppi dettagli per raccontare ciò che desidera. La sensazione è quella di trovarsi costantemente di fronte ad una desolata scena teatrale composta da pochissimi elementi. Potrebbe articolarsi in tre atti. Il primo si svolge nella palestra in cui i soldati dormono; il secondo tra la neve che copre e cristallizza boschi e villaggi; il terzo in una casupola abbandonata e fatiscente. Unico elemento comune ai tre ambienti è il freddo. Un freddo impietoso che aggredisce e avviluppa le cose e le persone.
Polonia. Seconda Guerra Mondiale. Tre militari tedeschi vengono svegliati dai colpi di ferro del tenente Graaf. “Per quale motivo il tenente Graaf doveva radunarci di fuori? Lui non lo temeva, il freddo? Quello che ci doveva dire avremmo potuto tranquillamente ascoltarlo al caldo, in piedi davanti alle nostre brande. Di sicuro non sembrava abbastanza solenne parlarci all’interno della palestra“. La comunicazione che viene trasmessa ai soldati è abbastanza prevedibile: ne arriveranno altri, probabilmente a fine giornata. Questo sta a significare che l’indomani ci sarebbero stati altri ebrei da fucilare. Emmerich, Bauer e la voce narrante decidono di parlare col comandante, scavalcando Graaf. “Gli spiegammo che preferivamo la caccia alle fucilazioni, che le fucilazioni non ci piacevano, che ormai ci buttavano giù, e di notte ce le sognavamo. La mattina, appena ci pensavamo, ci deprimevamo, e avremmo finito per non sopportarle più, e allora, tutto considerato, una volta malati per davvero non saremmo più serviti a niente“.
Cacciare gli ebrei invece di fucilarli. Ai tre soldati viene in mente questa scappatoia per non dover sopportare di nuovo la fatica di uccidere. Un desiderio che, chiaramente, non ha nulla a che fare con la pietà né con la compassione. Semplice escamotage di chi è troppo stanco di fare il proprio mestiere. Una banale questione di routine. Emmerich, Bauer e la voce narrante, dunque, si alzano all’alba per uscire a caccia di ebrei. Si muovono su strade giacciate e tra villaggi deserti ed assonnati. La neve e il gelo sono ovunque e riempiono i loro occhi. Intanto Emmerich è preoccupato per suo figlio: non vuole che il ragazzo fumi. Un’ordinaria preoccupazione paterna stride ferocemente con l’abominio storico nel quale i tre soldati tedeschi sono coinvolti. Emmerich è a caccia di uomini da mandare a morte ma la sua maggiore afflizione è legata al pensiero che suo figlio fumi. Gli altri due comprendono l’ansia del compagno e cercano le parole più giuste per alleviarla.
Durante l’escursione tra la neve del bosco, un ebreo riescono a trovarlo. E’ nascosto in un buco, sotto la neve. Ovviamente lo fanno prigioniero e sono certi che Graaf non ce l’avrà troppo con loro per averlo scavalcato visto che gli portano indietro un ebreo. Durante la strada del ritorno i tre tedeschi e il prigioniero si fermano in una capanna abbandonata. Vogliono riscaldarsi un po’ e mangiare qualcosa. Non hanno granché ma si arrangiano. Nella casupola non è rimasto molto da bruciare nella stufa ma quel che c’è lo fanno a pezzi e lo usano per alimentare il fuoco. L’intento è quello cucinare una zuppa. E buona parte della storia di Mingarelli è dedicata alla preparazione di questa minestra calda. Serve tempo e pazienza. Nel frattempo nella capanna arriva un cacciatore polacco con un cane. I tedeschi non capiscono la sua lingua e lui non capisce quella dei tedeschi ma nessuno lo caccia.
Alla fine la zuppa viene preparata. Emmerich, Bauer e la voce narrante decidono di dividere il pasto con il polacco e persino con il giovane ebreo catturato e chiuso da tempo in uno sgabuzzino. Una scena che ha del surreale, non c’è che dire: tre militari nazisti, un polacco antisemita e un ebreo che mangiano allo stesso tavolo, quasi dalla stessa pentola. Ed è a questo punto che si arriva al cuore della vicenda. “Lasciamolo andare questo qui“, dice Emmerich, mentre tutti mangiano. Impossibile da credere. E continua: “Perché ci farebbe sentire meglio, no?“. Perplessità glaciale. “Quando penseremo a lui, ci farà bene“. Un dilemma inaspettato. Emmerich appare convinto ma Bauer non è d’accordo. Sono soldati tedeschi. Sono cacciatori di ebrei ed hanno faticato un bel po’ per trovarne uno. Graaf si arrabbierà con loro perché sono tornati indietro a mani vuote. Che fare?
Una storia minima. Persino banale. Di quella banalità di cui sempre si parla quando si fa riferimento al “male” nazista. Eppure, forse, tra i soldati addestrati a perseguitare e fucilare ebrei c’era un Emmerich disposto a lasciar andare un ebreo appena catturato. Un padre stanco di uccidere e desideroso di pensare a un tempo a venire che non fosse solo il tempo delle fucilazioni. La ragione è altrettanto banale: stare un po’ meglio con se stessi. Farsi un po’ di bene in un momento in cui non c’è modo di pensare ad altro se non a compiere il proprio tragico dovere. La guerra e l’Olocausto hanno privato d’umanità le vittime ed i carnefici quasi allo stesso modo. Ovviamente non si può provare simpatia per i tre soldati tedeschi, d’altro canto l’obiettivo di Mingarelli non è quello di giustificare dei nazisti ma di frugare dentro la loro colpa mettendoli semplicemente di fronte ad una scelta molto difficile, nuova ed impensata: il crudele dilemma tra la vita e la morte.
Edizione esaminata e brevi note
Hubert Mingarelli, “Un pasto in inverno“, Nutrimenti, Roma, 2014. Traduzione di Federica Romanò. Titolo originale: “Un repas en hiver” (2012).
Pagine Internet su Hubert Mingarelli: Wikipedia
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