Esistono luoghi unici, magici, contemplativi; spazi in cui perdersi in solitudine, con la mente, in una quiete profondissima come sull’ermo colle di leopardiana memoria. Un posto in cui ritrovar se stessi a dispetto del mondo fuori. C’è un giardino pubblico nel cuore della metropoli caotica, nel quale cercano rifugio gli spiriti solitari nei giorni di pioggia, un luogo sospeso nel tempo e distante dalle difficoltà e l’inconsistenza della realtà di tutti giorni.
È così per Takao, quindicenne studente che sogna di diventare un fabbricante di scarpe artigianali, quando decide di saltare la scuola, in una giornata di pioggia, per raggiungere un giardino tradizionale al centro di Tokyo. Qui, riparato sotto una veranda, incontra Yukari Yukino, una donna giovane ma decisamente più grande di lui. È una inusuale ma bellissima intesa quella che trovano i due, che si rincontrano, senza conoscere i nomi, senza sapere sostanzialmente nulla l’uno dell’altro e senza darsi appuntamenti, più volte e sempre nelle mattine dei giorni di pioggia. Ad ogni incontro i due si aprono sempre di più l’uno verso l’altra, fino a conoscersi meglio e a sentirsi più vicini. Mentre la fine della stagione delle piogge incombe inesorabilmente.
Makoto Shinkai, già autore di intensi mediometraggi come La voce delle stelle e 5cm per second, torna a parlarci di distanze e solitudini e lo fa con una grazia e un lirismo fuori dal comune per un anime. Ancora una volta siamo sui sentieri dell’amore irraggiungibile, qui in particolare per la differenza di età tra uno studente quindicenne e una professoressa ventisettenne. Due persone sole, a loro modo, l’uno per una difficile situazione familiare, l’altra per una disillusione aggravata da difficoltà in ambito professionale e la fine di una storia nella vita privata. C’è un candore non comune nel modo attraverso il quale Shinkai fa interagire i due protagonisti sulla ribalta, annullando in un sol colpo le differenze dovute all’età e alla subalternità formale che un alunno deve a una professoressa. Non c’è nulla di morboso né di artificioso e né tanto meno di pruriginoso o ambiguo nel rapporto così come messo in scena dall’autore giapponese, ma al contrario c’è l’esaltazione della purezza di un sentimento che trova una via di comunicazione attraverso sguardi, gesti e naturalmente le parole, trovando momenti di vera emozione valorizzando i colori, le forme e i movimenti, accompagnati da una colonna sonora – splendido il tema musicale portante Rain, di Motohiro Hata – intensa e avvolgente. Emblematica, a questo proposito, la sequenza in cui Shinkai ci mostra con quanta grazia Takao prende le misure al piede di Yukari Yukino, proprio sotto la veranda del giardino, nel tentativo di immaginare la forma perfetta per la scarpa che ha in animo di costruire. Fino a un epilogo denso, dolcemente malinconico e commovente. Il tutto in appena tre quarti d’ora.
Makoto Shinkai denota ancora una volta la capacità di sapersi destreggiare abilmente sulla misura medio-breve, ancorché ci sia effettiva voglia, da parte degli appassionati, ai quali mi sono iscritto da tempo, di rivederlo all’opera in un lungometraggio (l’unico, ad oggi, è l’originale e suggestivo Il viaggio verso Agartha). Talmente a suo agio nell’immaginare la sostanza, tornando a parlarci di tematiche a lui care, che si esalta totalmente nel dar lustro alla forma: Il giardino delle parole è quanto di più perfetto e verosimile si possa trovare per ciò che riguarda la riproduzione in forma animata dei suoni, dei colori e della sostanza materiale di una natura che appare egualmente protagonista rispetto ai personaggi, in ossequio alla tradizione shintoista e in perfetta continuità ideale con un cinema animato, quello miyazakiano, in cui i culti animisti hanno avuto forte connotazione e rilevanza (Principessa Mononoke, La città incantata). Ma il regista giapponese è abile nel ricondurre tutta la sua materia animata a una prossimità alla realtà che ha quasi dell’incredibile. Vedasi anche come è maniacale nel riprodurre il più insignificante dettaglio di un oggetto, e di renderlo perfettamente distinguibile e in armonia col contesto.
È davvero un cinema che coinvolge da ogni punto di vista, quello di Shinkai, che amalgama ottimamente le musiche alle sequenze senza rischiare di risultare ossessivo o ridondante, stucchevole o eccessivamente melenso. Forse il minutaggio contenuto favorisce questa armonia e questa misura, spesso restituita anche da un montaggio a intervalli veloci, quasi a voler condensare, nella successione delle immagini, un pathos sentimentale che rischierebbe di strabordare se armonizzato in altra forma e durata. Eppure, come ripeto, la voglia di veder nuovamente misurata tale disposizione all’arte cinematografica in una maggiore lunghezza filmica c’è in ognuno di coloro che amano le sue opere e che hanno apprezzato molto anche Il viaggio verso Agartha. Quel che resta come evidenza, nella fattispecie, è che gli echi lirici e le infinite suggestioni, uniti allo straordinario apparato tecnico e delle animazioni che restituisce allo spettatore Il giardino delle parole in soli 46 minuti, sono qualcosa di imperdibile per un appassionato di anime. Un altro prezioso tassello nell’ancor giovane filmografia di un artista destinato a far parlare ancora di sé negli anni a venire.
Federico Magi, dicembre 2014.
Edizione esaminata e brevi note
Follow Us