Potere dell’immaginazione, della sua intrinseca capacità di generare mondi diversi, strabilianti universi e nuove cosmogonie. Potere della fantasia, del suo manipolare la materia che costituisce i sogni e renderla sostanza materiale, tangibile. Potere del sogno, delle sue infinite dimensioni che si sovrappongono e che costituiscono una terra altra, un dominio protetto e inaccessibile di cui l’arte spesso si serve per mezzo del suo geniale medium: l’artista. La settima arte, la fabbrica dei sogni in tutta la sua fascinosa luminescenza dei primordi vive in Hugo Cabret, ultimo grande film di Martin Scorsese, recente vincitore di 5 premi Oscar nelle categorie tecniche e vera dichiarazione d’amore per il cinema da parte di un regista che al cinema ha sempre dato moltissimo. Con Hugo Cabret Scorsese omaggia nientemeno che George Méliès, adattando in modo molto personale il romanzo di Brian Selzinck La straordinaria invenzione di Hugo Cabret (2007); e attraverso Mélies omaggia tanto cinema del passato, fondendo come un abile prestigiatore, come un vero amante, i fratelli Lumière e Fritz Lang, il realistico e l’immaginifico, filtrando tutte queste suggestioni attraverso lo sguardo vergine di un ragazzino disposto a scoprire la meraviglia che si nasconde dietro l’avvenuta creazione. Non è un caso che il piccolo Hugo Cabret sia un riparatore di guasti meccanici, uno che fa funzionare gli orologi e che cerca disperatamente di “ridar vita” a un vecchio automa.
Ma andiamo con ordine. Siamo negli anni Trenta, Hugo Cabret è un giovane orfano che vive segretamente tra le mura della stazione ferroviaria di Montparnasse, a Parigi. Del padre orologiaio, morto in un incendio, conserva un automa rotto che cerca disperatamente di riparare. È convinto che l’automa, la cui carica consentirebbe addirittura la scrittura, contenga un messaggio importante lasciato dal genitore. Per riparare l’automa Hugo sottrae gli attrezzi che gli sono utili dal chiosco del giocattolaio, che però se ne accorge e confisca al ragazzino il prezioso taccuino sul funzionamento dell’automa scritto dal padre. Il giocattolaio rimane quasi sconvolto alla vista di quel taccuino, che rievoca in lui ricordi sopiti e sepolti di un tempo di fama e di gloria. L’anziano giocattolaio non è altro che George Méliès, creduto morto dopo la Grande Guerra e caduto in depressione dopo che le sue opere sono andate distrutte e che il suo cinema sembra esser stato dimenticato. Grazie all’aiuto della coetanea Isabelle, figlia adottiva dei Méliès, Hugo riuscirà a “restituire la vita” al cinema di Méliès e a riportare sulla ribalta il geniale creatore del primo cinema fantastico che la storia ricordi.
Ennesimo capolavoro di Scorsese il quale, con Hugo Cabret, ci dona la sua pellicola più intima e personale. Un’opera di travolgente bellezza, una dichiarazione d’amore totale e incondizionata per il cinema e i suoi padri fondatori. Tra di essi non è un caso che il regista italo-americano trovi consonanza, vicinanza artistica e spirituale, proprio con il demiurgo di Jules Verne e dei suoi viaggi nell’impossibile reso possibile soltanto dall’immaginazione. Perché Scorsese possiede evidentemente il dna artistico di Méliès, e di conseguenza lo sguardo sul mondo circostante e sul cinema che lo rappresenta. Hugo Cabret è l’incontro tra due geniali artisti, tra due pittori della settima arte, tra due anime affini soprattutto nel voler andare oltre un immaginifico noumeno kantiano cinematografico; oltre la cosa di celluloide in sé, penetrando l’impenetrabile.
La storia del piccolo riparatore di orologi, che attraverso i sogni ridesta un mondo ancorato a movimenti ripetitivi e automatici è sintomatica dell’idea che Scorsese ha dell’arte e del cinema in particolare, ovvero quella di avere in sé quel potere taumaturgico che solo chi ha la capacità di guardare la realtà fuori dalla logica del consueto può possedere. Il cinema è tutto qui, anche se non è poco. E Scorsese lo dimostra a più riprese, servendosi di una storia adatta a ribaltare la logica e la ragione, attraverso l’ausilio di un automa improvvisamente “risvegliato”, capace di resuscitare un mondo che si auto perpetuava stancamente. Ecco che tutti i personaggi i quali, a vario titolo, affollano quotidianamente la stazione ferroviaria trovano la via e il coraggio per la realizzazione di sé, per vincere ataviche paure e per aprirsi finalmente alla vita.
Siamo in una fiaba, e non potrebbe essere diversamente, non solo perché ce la racconta un abile narratore come Scorsese e né perché Méliès torna a vivere e a trafiggere nuovamente con un razzo l’occhio della luna (Viaggio nella luna, 1902), ma perché c’è un racconto di formazione, un percorso iniziatico – quello che compie il giovane Hugo – che è la base imprescindibile per ogni narrazione magica. E se di magia vogliamo continuare a parlare non possiamo non lodare, ancora una volta, Dante Ferretti e Francesca Lo Schiavo, giustamente premiati dai membri dell’Academy per le incantevoli scenografie del film. Appropriato anche il cast, in cui spicca un grande Ben Kingsley-Méliès e in cui il piccolo Asa Butterfield convince più della pur brava e giovanissima Chloe Moretz (più a suo agio in ruoli fortemente caratterizzati come quelli, assolutamente da ricordare, incarnati in Kick-Ass e Blood Story). Piacevole il cammeo di Christopher Lee, che in simile contesto non poteva proprio mancare e buona anche la prova di Sacha Baron Cohen che si conferma attore mimetico e camaleontico. Fugaci apparizioni anche per Jude Law, Michael Pitt e Johnny Depp, che ha partecipato al progetto anche in veste di produttore.
La regia di Scorsese è tutta orientata a magnificare il grande apparato tecnico a disposizione, a liberare la meraviglia già insita in una storia che, fin troppo criticata da qualche parte perché apparentemente lineare, ha invece in sé tutte le caratteristiche per innescare una profonda riflessione sul genio e sulla creazione, sulla vita dell’arte e sul potere delle illusioni e dei sogni. Se mai ci fosse un merito sopra gli altri ascrivibile a chi ha contributo a inventare e diffondere la settima arte, è quello di averci regalato un mondo nel quale la meraviglia è l’ordinario e in cui, forse solo come nei libri, l’immaginazione è veramente al potere. Tutto questo è il cinema di Scorsese. Tutto questo è il cinema di Méliès. Tutto questo è pertanto Hugo Cabret, una pellicola che serve a ricordarci che – grazie al cinema – la fantasia e il sogno sono proprio qui, a portata di mano, a contendere il campo a una realtà che a volte è davvero difficile da sopportare.
Federico Magi, marzo 2012.
Edizione esaminata e brevi note
Regia: Martin Scorsese. Soggetto: tratto da “La straordinaria invenzione di Hugo Cabret” di Brian Selzinck. Sceneggiatura: John Logan. Fotografia: Robert Richardson. Montaggio: Thelma Schoonmaker. Interpreti principali: Asa Butterfield, Ben Kingsley, Chloe Moretz, Sacha Baron Cohen, Ray Winstone, Christopher Lee, Helen McCrory, Emily Mortimer, Jude Law, Johnny Depp, Michael Pitt, Michael Stuhlbarg, Frances de la Tour, Ben Addis, Gulliver McGrath. Scenografia: Dante Ferretti, Francesca Lo Schiavo. Costumi: Sandy Powell. Musica originale: Howard Shore. Produzione: Graham King, Tim Headington, Martin Scorsese, Johnny Depp per Gkfilms, Infinitum Nihil. Titolo originale: “Hugo”. Origine: USA, 2011. Durata: 125 minuti.
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