Man mano che ci avviciniamo a Santiago, capoluogo dell’omonima provincia e seconda città più importante dell’isola, si intensificano i cartelloni che la esaltano.
Santiago: rebelde ayer, hospitalaria hoy, heroica siempre.
L’insediamento urbano è notevole: notiamo i soliti palazzoni popolari, talvolta un po’ più colorati del solito, case, negozi, cliniche, un traffico sempre più congestionato. Anche gli abitanti sono diversi qui: devono essere proprio i discendenti degli schiavi africani, sono molto più scuri rispetto ad altre zone.
Cuba è un crogiolo di popoli e tutti hanno lasciato il loro segno. Nonostante la fama di cui gode, Santiago per me è stato uno dei luoghi peggiori che abbia mai visitato, complice forse anche il terrificante albergo in cui siamo capitati. Si chiama Hotel Rex ed è in centro, si affaccia proprio all’incrocio di Plaza de Marte. Questo è il primo guaio: il traffico è intensissimo giorno e notte, inoltre tutti questi motori vecchi emanano esalazioni pestilenziali, che rendono l’aria irrespirabile. L’odore di anidride carbonica è terrificante e immagino che qui abbiano un tasso altissimo di malattie polmonari.La caratteristica principale delle camere dell’hotel è l’assenza della finestra, o meglio, la finestra apre sul corridoio oppure, come nel nostro caso, non c’é. Un incubo. La stanza odora di muffa, non possiamo cambiarla, perché non c’é disponibilità, ha un condizionatore le cui bocchette, sempre spalancate, ti gettano l’aria giusto sulla testa e sul collo. Io sto ancora prendendo antibiotico, non posso passare la notte con questo perenne sventolamento, decidiamo di tenere sempre acceso il piccolo aspiratore del bagno e, per aerare un po’, muoviamo in fretta la porta, su e giù. Passeremo due notti qui, anelando aria respirabile. Del resto, i pochissimi ospiti che hanno una finestra, non possono aprirla per via del rumore e dell’odore. Aggiungo che siamo murati vivi in zona sismica. L’hotel è storico, perché vi passò Abel Santamaria, uno dei martiri della rivoluzione, ma temo abbia conservato anche i criteri abitativi dei tempi di Abel Santamaria. La Plaza de Marte, che una sera sarà animata da una festa popolare, era il luogo in cui gli spagnoli giustiziavano i prigionieri. La colonna che la domina è un monumento dedicato ai reduci locali delle guerre d’indipendenza ed è sormontata dal berretto frigio, che nell’Antica Roma veniva donato agli schiavi affrancati, poi diventato simbolo dell’indipendenza cubana.
Di Santiago ho apprezzato tre luoghi: il Cuartel Moncada, la Cattedrale e il Castello del Morro.
Il Cuartel Moncada è la famosissima caserma a cui Fidel Castro e i suoi compagni diedero l’assalto il 26 luglio 1953. Oggi è occupata quasi interamente da una scuola e solo poche sale sono adibite a museo. È una costruzione vistosa ocra e bianco con merlatura e conserva i fori dei proiettili esplosi dagli uomini di Castro durante l’assalto. In verità Batista aveva dato ordine di chiuderli, ma Fidel, preso il potere, li fece riaprire quasi ossessivamente, il più possibile in corrispondenza di quelli originali.
L’assalto alla Moncada è una delle tappe tragiche della rivoluzione. Nel 1953 Castro decise di condurre un’azione per procurare ai suoi le armi necessarie per la guerriglia e possibilmente provocare una sollevazione popolare contro la dittatura di Batista. La caserma Moncada di Santiago era l’ideale: era la seconda del paese e si trovava a oriente, in una zona già favorevole ai movimenti clandestini anti-governativi. Il piano prevedeva tre azioni d’attacco: il gruppo principale, condotto da Fidel, avrebbe assaltato la caserma, mentre suo fratello Raoul con dieci uomini si sarebbe diretto verso il vicino Palacio de Justicia, sovrastante la caserma, per garantire il fuoco di copertura. Nel frattempo Abel Santamaria, il secondo di Castro, avrebbe dovuto prendere l’ospedale civile di fronte al Palacio de Justicia con ventidue uomini e due donne, la sorella di Santamaria, Haydee e la fidanzata, che avrebbero aiutato i feriti.Fu un disastro. La carovana dei mezzi d’assalto, partita da Siboney, si disperse prima di Santiago. Alcuni sbagliarono strada e non arrivarono mai in città, altri arrivarono e riuscirono anche a penetrare nella caserma con uno stratagemma e a prendersi le armi delle guardie. Fuori però le cose non andavano bene. Castro, a bordo della seconda auto, ebbe uno scontro a fuoco con una pattuglia di ronda, ciò mise in allarme tutta la caserma. Nel frattempo gli altri del gruppo d’assalto, vedendo fermarsi l’auto di Castro, si lanciano all’attacco dei diversi corpi della caserma, come era stato stabilito. Castro non ebbe il tempo di rivalutare la situazione, si creò una gran confusione, quelli che avevano preso il primo edificio finirono isolati, alla fine Castro ordinò di ripiegare, lasciando sul terreno due morti e un ferito. Il Palacio de Justicia e l’ospedale invece furono presi facilmente, ma l’azione risultò inutile, visto il fallimento di tutto il resto. I veri problemi però dovevano ancora venire. Nel giro di quarantotto ore gli uomini di Castro, tra 55 e 70, furono catturati, torturati e messi a morte dagli ufficiali di Batista. Ci furono migliaia di arresti.Ad Abel Santamaria furono cavati gli occhi e spediti alla sorella. Dei ribelli sopravvissuti, trentadue furono deferiti al tribunale, tra cui Fidel Castro, altri fuggirono. Le atrocità commesse alla Moncada – e puntualmente documentate con una certa enfasi al museo – finirono per far simpatizzare sempre più persone per i ribelli. Fidel Castro fu processato col fratello Raoul e condannato a 15 anni. Fu in quest’occasione che, nella sua autodifesa, pronunciò la famosa frase: “La historia me absolverà”. Dopo neanche tre anni, Batista commise l’errore di cui, credo, si pentì per il resto dei suoi giorni: liberò i fratelli Castro, che andarono in esilio in Messico a preparare la rivoluzione. E fu l’inizio della sua fine.
Dal profano al sacro. La Catedral de Nuestra Señora de la Asuncíon è in realtà la quarta cattedrale eretta in questo luogo. Le precedenti furono distrutte dai pirati e dai terremoti. L’edificio attuale è del 1818, si trova al Parque Céspedes e ha avuto vari danni sia da più sismi che dall’uragano Sandy del 2012. La facciata è barocca con campanili simmetrici.
L’interno è assai elaborato con un soffitto rococò ad archi che poi si risolve in una volta celeste affrescata con una nuvola di cherubini. L’impressione generale è di grandiosità.
Il luogo più panoramico di Santiago è il Castello del Morro San Pedro de la Roca, una fortezza sulla scogliera che fiancheggia l’ingresso alla baia della città. Fu progettata dall’ingegnere militare Giovanni Battista Antonelli (che disegnò anche l’analoga fortificazione de L’Avana) e chiamata col nome dell’allora governatore di Santiago. Fu costruita tra 1633 e 1639 come difesa contro i pirati, ma si dimostrò inaffidabile, perché fu espugnata facilmente da un pirata inglese nel 1662. La fortezza vanta un ponte levatoio, spesse mura che formano serie di angoli acuti e cannoni puntati verso il mare. Ospita il Museo de la Piratería, ma il vero spettacolo è dato dal panorama sul mare e dalla scogliera sottostante.
Per il resto ho trovato Santiago caotica, inquinatissima e poco attraente. Anche gli abitanti di sesso maschile, fin dall’età adolescenziale, paiono affetti da un ostentato machismo. Sembra obbligatorio manifestare commenti e gesti grossolani verso qualsiasi donna incontrino, fosse anche una dell’età della loro nonna o madre.
A Santiago il desiderio di spiaggia raggiunge il suo apice e, quando partiamo, mi sento sollevata e contenta.
Tre ore di Caretera Central ci portano alla nostra meta. Attraversiamo anche Birán, paese d’origine dei Castro. Qui campeggiano i ritratti di Fidel e Raoul sullo sfondo di una bella casetta. Tutt’intorno al paese ci sono i campi che erano di proprietà del loro padre.
A Holguin la nostra guida ci lascia per tornare a L’Avana. Juanito ci accompagnerà fino a Guardalavaca, al villaggio turistico Palya Costa Verde, sul lato atlantico di Cuba, dove ci sono le spiagge più belle. Il paesaggio qui è vario, con rilievi verdeggianti e distese di canna da zucchero.
Guardalavaca prende il nome dall’airone guardabuoi, che qui accompagna le mucche, liberandole dalle fastidiose mosche.
Il nostro villaggio è grandissimo, molto curato e gode di una bella spiaggia. Siamo tutti stanchi e aneliamo a un po’ di riposo. Qui, come sempre nei villaggi, sembra di stare in un altro mondo, è un’oasi, o meglio un recinto nel quale pascoliamo un po’ bovinamente. Noto che c’é molta sorveglianza, i militari fanno la ronda in spiaggia, ci sono guardie attorno al villaggio, c’é molta attenzione per la sicurezza. Mi chiedo in quale misura tutto questo serva a tutelare noi e in che misura sia invece un modo per controllarci e assicurarsi che ci comportiamo bene. Anche qui, come in tutta l’isola, Internet è costoso e lento. Per i residenti non è affatto libero. Noi abbiamo deciso di rinunciarvi, una volta avvisati i figli via sms, non è necessario connettersi. Devo dire che è un’ottima terapia disintossicante e rende liberi dalla dipendenza da telefonino, che a volte ci affligge.
La vita di villaggio – qui tranquillissima, a ritmi molto rilassati, anche gli spettacolini serali finiscono alle 22,30, così si può godere di un po’ di silenzio – è occasione per osservazioni naturalistiche o per contemplazione dell’Atlantico, che qui vanta sfumature azzurre quasi indescrivibili. L’acqua è trasparente, verdina vicino alla costa, mentre assume un colore sempre più intenso, fino al blu oltremare, al largo. È molto cangiante a seconda delle condizioni atmosferiche e offre il suo meglio col sole che la punteggia di riflessi dorati e di barbagli improvvisi. Il colore acquista qui accensioni decise: gli azzurri marini, la spiaggia di sabbia bianca, la luce solare dorata, le lucide foglie verdi della vegetazione, tutto crea suggestione e meraviglia, la luce a volte è abbacinante.
Spingendosi fin oltre un piccolo promontorio, si inizia a uscire dalla baia e ci si apre verso l’Atlantico. Qui le onde, crestate di spuma, sono più alte e forti e s’infrangono contro le rocce, erodendole e creando sculture tutte fori e spuntoni, il blu è ancora più intenso ed evoca spazi infiniti e perenne movimento, vita nascosta nei fondali e mistero delle profondità.
Vicino alla riva è frequente vedere piccoli pesciolini tropicali, alcuni gialli a righe nere. Tra le alghe e qualche sasso affiorante noto un polipo, che si mimetizza e se ne va impaurito quando si sente osservato da troppi sguardi estranei.
Basta allontanarsi dalle zone più frequentate – dove comunque si sta larghi, non come nei nostrani carnai estivi – e inoltrarsi in qualche sentiero che attraversa la macchia per fare altri incontri: grossi granchi di terra arancioni, che in questo periodo vanno in amore; una sorta di nutria locale, un colibrì, uccellini neri. Tra i sassi hanno le tane una sorta di lucertolone che, al sole, arricciano la coda in modo buffo. In tutta l’isola ho sempre visto, alti nel cielo, gli avvoltoi dal capo rosso, cupe presenze. Meravigliosi ed eleganti sono invece gli aironi bianchi che vivono in numerosa colonia presso un’area di canneti e acque ferme situata tra spiaggia e villaggio. La sera, a volte, si radunano su uno stesso albero, come per una riunione di condominio. Infine, presso la nostra stanza, amplissima e con grandi vetrate che danno sul giardino pieno di meravigliosi ficus, abbiamo un ospite peloso: è una gattina magrissima e affamata, cui portiamo qualche fetta di prosciutto trafugato dal buffet. Ha una tale fame che i pezzetti di cibo non toccano neanche terra.
La permanenza al villaggio è anche un modo per consolidare i rapporti con i nostri compagni di viaggio. Abbiamo avuto due simpaticissime mascotte, i due bimbi della nostra dottoressa, Giuseppe ed Elisabetta. Sono educatissimi e simpatici e molto bravi ad affrontare un viaggio simile in una compagnia di adulti. Il resto del gruppo, come dicevo, è formato da tutte persone distinte e tranquille, con le quali abbiamo sempre chiacchierato e scherzato allegramente. Con Giorgio e Rossella, romani, abbiamo scoperto un’affinità elettiva: tutti e quattro figli unici! E molte idee in comune. È stato bello viaggiare con loro.
Infine, va ringraziato il popolo cubano: un popolo bello, giovane, fiero della sua magnifica isola, un popolo che ha imparato l’arte di arrangiarsi, un popolo creativo, musicale, un popolo che ha bisogno soprattutto di un bene inestimabile: la libertà. Libertà di viaggiare, di commerciare, di pensare e di esprimere il proprio pensiero.
Il rientro
Il 28 aprile, dopo le regolamentari tre ore di Caretera Central, arriviamo all’aeroporto Antonio Maceo di Santiago. Antonio Maceo, detto il Titano di bronzo, era un mulatto, eroe dell’indipendenza dagli spagnoli. Nella Plaza de la Revolutión di Santiago c’é un colossale monumento a lui dedicato, la statua equestre in acciaio è alta 16 metri e dietro c’è una foresta di giganteschi machete sempre in acciaio. La trovo inquientante e assai retorica.
L’aeroporto, a differenza dell’eroe cui è dedicato, è un buco. Partiamo di sera con un’ora e mezza di ritardo, ma per fortuna lungo la traversata recuperiamo, come se Eolo ci soffiasse sulle ali. Il viaggio di ritorno dura circa dieci ore. Pagando un sovraprezzo ci siamo assicurati due posti vicino alle ali, dove c’é più spazio per le gambe. Ciò nonostante la notte in aereo, per quanto contratta a causa del fuso orario, è un incubo che non finisce più. Non trovo alcuna posizione comoda e non dormo neanche un minuto, mentre mio marito mi dice che non sto mai ferma e forse lui un pisolino riuscirebbe a farlo. Fa pure freddo, perché stavolta l’aria condizionata è alta, ma io ho sempre il fedele pile.
Finalmente arriviamo a Fiumicino. Il nostro programma è di tutto rispetto: hotel, doccia, nanna e, alla sera, pastasciutta! Siamo in crisi di astinenza e Fiumicino pullula di ristorantini molto attraenti.
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