A un anno di distanza dal terrificante La casa dalle finestre che ridono, uno dei migliori thriller-horror italiani dei prolifici – per il genere – anni Settanta, Pupi Avati torna a ripercorrere i sentieri del giallo gotico ma in chiave quasi totalmente parodistica. E in quel quasi, che chi ha un vago ricordo del film può imputarmi di usare a sproposito, c’è tutta la bravura di Avati nell’accostarsi a un genere che, pur estremamente diluito dal regista nel successivo trentennio, è rimasto sempre, decisamente nelle sue corde. Basta pensare a Zeder, a L’arcano incantatore, e perché no anche al più recente, affatto disprezzabile, Il nascondiglio. In quel quasi c’è la differenza tra un mestierante e un artigiano di classe; un artista, quale Avati è sempre stato, fin troppo prolifico ma capace di spaziare come pochi altri italici registi tra i generi. Prima di ritornare sui perché e i percome di quel quasi, che non è solo forma ma imprescindibile sostanza, e prima di analizzare i debiti d’ispirazione del soggetto proposto, scorriamo brevemente la trama.
Emilia, 1950. Nel tentativo di far avverare un’antica profezia che porterebbe al ritrovamento di un tesoro nascosto, è necessaria la morte di nove membri di una nobile famiglia oramai caduta in disgrazia economica. Nel palazzo dei marchesi Zanetti, un ignaro rappresentante porta due copie di un misterioso volume in cui sono contenuti miti, leggende e stravaganze degli antichi casati d’epoca feudale della zona. L’inatteso ospite si trova di fronte una bizzarra famiglia che è in procinto di dare l’ultimo saluto all’appena defunto capofamiglia. Da qui in poi inizia una serie di strani omicidi, e in conseguenza di ciò alla frastornata compagnia si unisce uno sprovveduto e arrangiatissimo investigatore privato, chiamato al posto della polizia per non infangare il buon nome della famiglia. Tra assurde morti e strampalati personaggi si conteranno in tutto nove cadaveri, in diverso modo imparentati con il patriarca defunto, tanti quanti ne bastano per il compimento della profezia cui segue il ritrovamento del tesoro occultato. Ma alla fine della fiera, con estrema sorpresa dell’assassino, i numeri non tornano: la beffa è servita.
Il modello principe che ispira Avati è certamente Dieci piccoli indiani, film di René Clair del 1945 che trae a sua volta ispirazione dall’omonimo e notissimo romanzo di Agatha Christie, ma i debiti sono anche verso tanto cinema e letteratura di genere, soprattutto per atmosfere e ambientazioni. Tutti defunti… tranne i morti è però a sua volta fonte di ispirazione per alcune opere a venire, come il britannico e di un anno successivo Il gatto e il canarino, di Radley Melzer, perfettamente a cavallo tra la farsa proposta dal film in questione e il thriller di René Clair, considerando le ambientazioni molto simili alle tre pellicole. Andando ancora più avanti nel tempo, e arrivando ai giorni nostri, si può ben affermare che, sia pur molto lateralmente, Scary Movie e amenità affini siano una sorta di scadentissimi epigoni della pellicola di Avati e che il divertente, più raffinato e letterario Invito a cena con delitto di Robert Moore non sia del tutto esente dall’influenza di questo film. Detto ciò concentriamoci sull’unicità di questa pellicola, su quel quasi parodistico che fa la differenza. E qui c’è l’abile regia di Pupi Avati, che ben si sposa con l’agile sceneggiatura a quattro mani (ancora una volta con Pupi ci sono il fratello Antonio, Gianni Cavina e Maurizio Costanzo, gli stessi de La casa dalle finestre che ridono), la quale riesce bene a fondere, in un’atmosfera dominata dalla farsa e dai toni surreali, tutte le variabili e gli accorgimenti legati al genere d’origine, il thriller gotico. Pur nell’assoluta e dichiarata ilarità proposta non è difficile notare, sin dal suggestivo incipit in cui la macchina da presa si concentra su una figura oscura che legge le parole della profezia in tono catacombale, che Avati vuol donare un sottile filo di inquietudine a una vicenda che è una vera e propria burla. Ambientazione, fotografia e scenografia rafforzano questa commistione voluta e trovata, contribuendo al buon impasto filmico restituito da una struttura semplice ma curata perfettamente nei dettagli. E i dettagli, nella fattispecie, fanno la differenza. Fanno la differenza rispetto ad opere slegate e stupide come Scary Movie e compagnia, che volendo parodiare l’horror si basano soltanto su uno stanco e ripetitivo citazionismo senza struttura narrativa e dal cortissimo respiro.
Tutti defunti… tranne i morti è un palese divertissement nel quale tutto funziona abbastanza bene e in cui, grazie a uno script fatto di dialoghi surreali in cui interagiscono personaggi assurdi (tra di essi un improbabile malato di autoerotismo con infermiera al seguito), e a una regia non banale che vede Avati giocare parecchio con le inquadrature, gli attori paiono divertirsi davvero a recitare. Notare, a tal proposito, il simpatico duetto tra Carlo Delle Piane e Gianni Cavina, che in una buffa sequenza – quella in cui i due si prendono a sberle – omaggiano il nonsense dei grandi comici del cinema muto. Nel cast troviamo anche la bella Francesca Marciano, già con Avati nel film precedente, successivamente divenuta scrittrice e ottima sceneggiatrice (ricordiamo il David di Donatello per Maledetto il giorno che t’ho incontrato), e nelle improbabili vesti di un cowboy dall’accento pugliese, Michele Mirabella. Il film fu girato, sia in interni che in esterni, nel Castello Carrobbio di Massa Finalese, frazione di un comune modenese. Luogo davvero spettrale e fascinosamente letterario, perfetto per far da suggestiva cornice ad un’inusuale commedia che pesca abilmente dai canoni del giallo gotico fin dalla sua beffarda, infantile quanto tenebrosa profezia: Saranno in dieci / legati al nostro nome / uno ne rimarrà / non si sa come / e da quei nove morti / composti al cimitero / avrà luce il tesoro / e scoprirai il mistero / Tutto avverrà la notte maledetta / in cui la quercia antica / cadrà sotto la saetta.
Federico Magi, febbraio 2010.
Edizione esaminata e brevi note
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