Il futuro e l’Apocalisse, è questo il leitmotiv di larga parte dell’animazione giapponese degli ultimi trent’ anni. A partire dai Goldrake e i Mazinga, arrivati in Italia nel 1978 come cartoni seriali, il presentimento di un futuro in cui i robot avrebbero dominato il mondo è diventato una forma di intrattenimento visivo, in principio quasi ludico ma poi sempre più angosciante, irrinunciabile anche in Occidente. Se lo spauracchio di partenza era La Guerra fredda (l’atomica sempre in rampa di lancio), che di certo è alla base delle motivazioni non esplicite del Conan di Miyazaki (ispirato da un romanzo, The Incredible Tide, di Alexander Key), con lo scorrere del tempo, e a Muro di Berlino ampiamente crollato, è risultato evidente ai costruttori di fiabe animate che di motivi d’autodistruzione per gli esseri umani ce ne erano ben altri, sempre legati a sottili equilibri di potere, a imperialismi assortiti e a umane negligenze, per usare un eufemismo, nella salvaguardia dell’ecosistema. Da Oriente a Occidente, sotto questa immaginifica influenza che spirava dal Sol Levante, sono nati i grandi lungometraggi fantascientifici della fine dei Settanta e degli Ottanta, come la prima trilogia Star Wars, Alien, Blade Runner e Terminator. Il futuro è un’ ipotesi, cantava proprio negli Ottanta Enrico Ruggeri, certo con ben diversi e meno inquietanti quesiti di base, ma un’ipotesi terrificante e oscura, a quanto vagheggiato dall’intrattenimento di celluloide degli anni a venire, tanto da immaginare un rapporto ambiguo tra l’uomo e la macchina, fino quasi a ribaltare i ruoli, umanizzando le macchine e robotizzando sempre più gli uomini, come è riscontrabile in mondo lampante e angosciante soprattutto in Blade Runner e Terminator 2, il giorno del giudizio (ma anche nel quasi contemporaneo, struggente e malinconico A.I. di Spielberg, a ben guardare). Da queste suggestioni, oltre ché da tanta letteratura di genere, trae spunto Metropolis, lungometraggio d’animazione datato 2001 e ispirato al manga omonimo di Osamu Tezuka, diretto da quel Rintaro già regista del suggestivo anime La spada dei Kamui e di uno dei tre episodi (Labyrinth) de I racconti del Labirinto. Da queste ma soprattutto dal capolavoro del cinema muto del tedesco Fritz Lang (l’omonimo e ben più famoso Metropolis, del 1927), a cui è liberamente ispirato, e al quale tutte le pellicole sopra citate devono certamente qualcosa. Fatta un po’ di storia e lasciati i dovuti riferimenti cinematografici, raccontiamo brevemente l’intreccio.
Metropolis è una megalopoli del futuro, una gigantesca Città Stato abitata da diverse classi sociali. Il Presidente Boon controlla l’esercito e guida le istituzioni, ma il vero potere è detenuto dal Duca Red il quale, segretamente, sta facendo costruire dal Dr. Laughton – uno scienziato svanito nel nulla e ricercato dalle autorità – l’androide perfetto, Tima, colei che governerà il mondo dallo Ziggurrat, una torre imponente e ipertecnologica che si erge al centro di Metropolis. Uomini e androidi convivono, nella città del futuro, ma le macchine spesso si ribellando alle prescrizioni umane. Di più, i robot, sono così evoluti da comprendere l’assenza di libertà e le sperequazioni sociali, proprio perché programmate per il bisogno dell’uomo. In effetti Metropolis è tutt’altro che un’oasi di pace e beatitudine: si estende per più livelli nel sottosuolo, dove vive un proletariato suburbano pronto alla rivolta contro i tiranni e contro le macchine. In questo scenario da Apocalisse alle porte arriva dal Giappone un investigatore privato, accompagnato dal nipotino Kenichi, sulle tracce dello scomparso Dr.Laughton. Ma l’intreccio è ancor più complesso, perché il Duca Red e la sua polizia di partito hanno in mente, grazie al potere dell’ancora inconsapevole Tima, di ribaltare gli equilibri politici della città e da essa governare il mondo. E poi c’è anche Rock, figlio adottivo del Duca, che vuol boicottare l’esperimento androide a tutti i costi. Da ciò il tentativo di distruggere Tima, ancora ignara della sua potenza e credutasi bambina umana, grazie all’amicizia e all’amore di Kenichi che l’aveva salvata dall’esplosione in cui aveva perso la vita il Dr.Laughton. In un finale di fuoco e distruzione la macchina si ribellerà al perverso potere dell’uomo, immaginando una soluzione terminale. Ma c’è l’amore di Kenichi, per un cuore artificiale immaginato simile a quello degli uomini.
Il tema non è nuovo come non lo è lo scenario apocalittico, ma Metropolis conferma l’ottimo feeling tra il cinema d’animazione nipponico e certe tematiche adulte, affatto spensierate e tradotte in un fantascientifico che non ha nulla né di ludico e né, a ben guardare, di troppo sdolcinato o “buonista”. Il film di Rintaro risulta addirittura angosciante, nella lunga sequenza pre epilogo, a dispetto di un uso del colore che cerca fantasie assortite e rifugge lo stile gotico-dark tanto caro a questo tipo d’animazioni, ancorché dosando sapientemente la lucentezza. Anche i ritmi e la musica vanno quasi contro la tendenza di genere: un po’ lento all’ingresso della storia e nebuloso in alcuni suoi intrecci preliminari, Metropolis si avvale di una colonna sonora che spazia dal jazz al melodico country, rievocando atmosfere dell’America degli anni Trenta, Quaranta e Cinquanta. Questa scelta apparentemente stridente non sembra un vezzo di Rintaro, ma quasi un modo per creare atmosfere da vecchio noir, che a dire il vero mal s’accordano – a mio parere – col contesto fantascientifico. Solo nel finale, sulle abbondanti scene di distruzione, le note di I can’t stop loving you, celebre brano del musicista country Don Gibson, interpretato da Ray Charles, hanno una palese e riscontrabile valenza simbolica, per un amore androide-umano impossibile ma comunque necessario a salvare il pianeta a un passo dalla devastazione totale.
Come si diceva in sede d’introduzione, il tema principe di Metropolis, ovvero il rapporto affettivo tra umano e androide, è mutuato in maniera dolce e delicata da due capolavori fantascientifici come Blade Runner e Terminator 2 (James Cameron, non a caso, ha espresso lodi entusiastiche per Metropolis), due film che insinuavano inquietanti interrogativi: può il robot essere programmato su registri emotivi? Può essere programmato per provare empatia, amore? O addirittura essere indirizzato a una sorta di filantropia, come tenta di fare, con sorprendenti risultati, Edward Furlog-John Connor con Arnold Shwarznegger-Terminator nel secondo episodio del gioiello di James Cameron? Terminator 2 è proprio il film che estende a macchia d’olio e che meglio restituisce dubbi, orrori e inquietudini legati al rapporto tra l’uomo e la macchina, in quanto le macchine prima distruggono e poi tornano indietro nel tempo, riprogrammate, per vegliare sul leader della futura ribellione umana. Come in Terminator e Blade Runner, anche in Metropolis risulta chiaro ed evidente il limite umano nella ricerca di contatto, o quanto meno di avvicinamento, all’idea di assoluto. Tima, in effetti, è pensata come una sorta di semidio, concetto arcaico (conoscete la saga di Gilgamesh?) ma sempre fascinosamente attuale, una sorta di ponte tra cielo e terra (un tempo c’era il Pontifex, sempre nel mondo arcaico e tradizionale), tra umano e divino. Non a caso viene evocato nel film più volte lo Ziggurrat, torre dell’antica area mesopotamica il cui emblema storico, mitologico e letterario è l’arcinota Torre di Babele, anch’essa mutuata da Tezuka come simbolo del crollo di una civiltà, della sua autodistruzione, di un’Apocalisse presentita in cui l’uomo perde la giusta distanza tra sé e le cose, nonché i concetti d’identità e alterità, principi primi della vita in comunità.
Costato la bellezza di 12 milioni di dollari, ma legato a tratti animati forse troppo infantili per un simile tema, Metropolis denota comunque delle suggestive scelte estetiche, soprattutto di contrasto, mescolando effetti digitali e computer grafica. Elaboratissima l’animazione della fortezza, per la quale Rintaro ha goduto della collaborazione di notevoli firme del cartoon nipponico, come il disegnatore, sceneggiatore e regista Katsuhiro Otomo. Non mancano, a ben guardare, i classici temi dostoevskijani, spesso presenti nelle animazioni giapponesi dall’ampio respiro, come i rapporti aridi tra padre e figlio, generatori di paure inconsce e aggressività (il personaggio di Rock è emblematico, in questo senso). Come non manca la riflessione di fondo sull’etica e sul potere, con riferimenti nemmeno troppo velati alla genesi delle dittature novecentesche.
A conti fatti un ottimo lungometraggio animato, ricco di spunti di riflessione e forte di una sua riconoscibile cifra autoriale. Forse non è il capolavoro che qualche addetto ai lavori ha sentenziato tale, perché fin troppo cerebrale e costruito, ma resta un film decisamente da vedere.
Federico Magi, giugno 2009.
Edizione esaminata e brevi note
Regia: Rintaro. Soggetto: Tratto dall’omonimo manga di Osamu Tezuka. Sceneggiatura: Katsuhiro Otomo. Scenografia: Shuiki Hirata. Effetti: Shuiki Hirata, Tsuneo Maeda. Musica originale: Toshiyuki Honda. Altri titoli: “Metoroporisu”, “Robotic Angel”, “Osamu Tezuka’s Metropolis”. Origine: Giappone, 2001. Durata: 104 minuti.
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