La fede è un inganno, un’ illusione, un modo per semplificarsi la vita oppure la corrente animico-spirituale più potente del mondo? Il confine tra fisico e metafisico, tra immanente e trascendente, tra caso e destino, tra caos cosmico e karma è davvero così netto come sovente le religioni immaginano? A questi interrogativi, ispirandosi al bestseller Life of Pi, con il quale Yann Mattel vinse il prestigioso Booker Price nel 2002, cerca di rispondere il regista taiwanese Ang Lee, adattando in forma cinematografica una storia avventurosa e drammatica densa di dubbi esistenziali e di quella corrente spirituale che attraversa il romanzo dello scrittore canadese. Una storia difficilmente traducibile in forma filmica, in particolar modo perché il corpo centrale delle narrazione è costituto da 277 giorni in mare aperto su una scialuppa di salvataggio che ospita due singolarissimi naufraghi, un ragazzo indiano di nome Pi (Pi è il diminutivo di Piscine: proprio così, dal francese piscina) e Richard Parker, una ferocissima tigre del Bengala. Vi dico subito, per non farvi fuggire a gambe levate immaginando che ai due curiosi protagonisti e all’oceano sterminato associate due ore di sonno, che Ang Lee ha un senso del cinema ad ampio respiro e dello spettacolo talmente spiccato che anche se non siete particolarmente interessati ai racconti di formazione, ai dubbi spirituali e agli interrogativi esistenziali avrete comunque a che godere di questo film. E in ciò, nel senso del cinema puro e semplice, quel plusvalore che o ce l’hai o non ce l’hai perché non basta essere buoni artigiani ma bisogna essere un tutt’uno con la macchina da presa, Ang Lee si conferma artista che si eleva oltre la media dei colleghi registi, dimostrando nuovamente di saper spaziare abilmente tra i generi fino a utilizzare e bene, per la prima volta nella sua carriera, il 3D. Vita di Pi è un’opera, al pari dell’ Avatar di James Cameron, totalmente esaltata dall’effetto tridimensionale, mai eccessivo o stonato nemmeno quando la fantasia del regista taiwanese prende il largo e immagina, traducendo visivamente gli slanci onirici di Martel, i giochi di specchi tra mare e cielo che rappresentano il confine la nostra dimensione e un mondo oltre. Un luogo infinitamente celeste in cui le correnti del divenire fluiscono perpetue e in armonia col cosmo.
Ma perché Piscine e Richard Parker si trovano in mare aperto? Facciamo un passo indietro e torniamo all’infanzia del ragazzo, cresciuto a diretto contatto con gli animali di uno zoo di cui il padre era il proprietario. Sin da bambino Pi è profondamente attratto da ogni religione che gli capita di accostare: è hindu per nascita, poi grazie a un prete locale conosce Cristo e in seguito impara a pregare Allah. Pi non è ancora adolescente ma già prega diverse divinità, riconoscendo loro eguale dignità. Il padre invece è un convinto sostenitore della ragione e della scienza, ma non impedisce al ragazzo di vivere seguendo le proprie inclinazioni e convinzioni spirituali, nonostante qualche avvertenza lasciata ad hoc lungo il percorso di crescita. Una volta adolescente Pi fa appena in tempo ad innamorarsi quando il padre decide che la loro famiglia, composta anche dal fratello maggiore e dalla madre del ragazzo, si debba trasferire in Canada con tutti gli animali al seguito, viste le scarse entrate economiche dello zoo. Una volta in mare, però, la nave che li ospita è travolta dalla tempesta. Nessuno sopravvive, salvo Piscine e uno sparuto numero di animali che, in modo assai rocambolesco, trovano rifugio sulla scialuppa: una zebra, una scimmia, una iena e una pericolosissima tigre chiamata, per un buffo errore di trascrizione, Charlie Parker. Tempo poche ore rimarranno solo Pi e Charlie Parker. Qui comincia il viaggio, l’avventura incredibile in cui solo alle fine, forse, capirete ciò che c’è di reale e ciò che c’è di immaginario. Ma che la storia narrata da Mattel e filmata con piena adesione da Ang Lee sia di questo o di un altro mondo, in fin dei conti, è davvero poco rilevante. Quello che conta sono le domande, che restano sul campo a far riflettere i protagonisti della vicenda come gli spettatori.
E proprio lo scegliere di non dare risposte certe, come consuetudine delle narrazioni intelligenti e delle opere dall’ampio respiro, è un elemento che rende affascinante una storia che cerca di tradurre in pochi ma basilari quesiti esistenziali la complessità dei dubbi ancestrali degli esseri umani. E senza girarci troppo attorno, che vi professiate atei, razionalisti della prima ora, empiristi positivisti scientisti e materialisti d’ogni tipo e sorta, gli interrogativi posti da Life of Pi li avrete sicuramente fatti vostri anche voi, di tanto in tanto e più o meno consciamente, nell’arco della vita. Ange Lee, attraverso il libro di Martel, cerca di porre l’accento su una sorta di relativismo religioso, o meglio su un sincretismo che non vuole comunque sminuire o sovrapporre nessun Dio e nessuna religione. In questo senso Pi è una sorta di messaggero di Dio in terra per tutte le fedi e tutte le confessioni, per coloro che scelgono di credere alla sua storia. Vicenda talmente inverosimile che alle orecchie di ascolta e vuole risposte rassicuranti e convenzionali (gli investigatori assicurativi) deve essere modificata, ma che al contrario in chi è in cerca di sommovimenti interiori e ispirazione (lo scrittore) può e deve mantenere inalterata la sua eccezionalità.
Che sia apologo, metafora o allegoria, la storia di Pi non muta in effetti il suo senso col cambiare dei personaggi sulla ribalta, né il suo carattere formativo o la sua morale di fondo. Certo narrata come ce la racconta lo stesso Pi, in forma di fiaba comunque drammatica ma dall’esito evidentemente positivo nonostante le dolorose ferite della vita, è un viaggio iniziatico che non può non toccare le corde più intime dello spettatore e Ang Lee lo sa bene. Lo sa talmente bene che rende centrale il rapporto tra la tigre e il ragazzo, il loro progressivo avvicinamento dopo la naturale diffidenza iniziale; e li avvicina in modo da esaltarne l’indispensabilità dell’uno per l’altra, fino alla toccante sequenza pre approdo sulla terraferma. Fino all’inevitabile addio, in cui la commozione sopraggiunge piena perché il racconto di Mattel, valorizzato pienamente da Lee anche in queste sequenze intimiste e malinconiche, sceglie di allontanare i due facendo leva sull’umano troppo umano da un lato e sull’istinto animale (quanto mai felino, a ben guardare) dall’altro: la tigre, una volta arrivata la scialuppa sulla costa, si allontana da Pi a passo lento, scomparendo alla sua vista senza mai voltarsi, per immergersi in un habitat a lei più consueto. Mentre il ragazzo cercava uno sguardo, se non d’affetto quanto meno di condivisione, per quei 277 giorni passati insieme tra mille difficoltà. Qui la storia marca volutamente la differenza tra l’uomo e l’animale, e pur in ossequio al relativismo e i sincretismi proposti lungo la narrazione, che prendono anche spunto da elementi di dottrine che considerano di pari dignità tutte le creature della terra, ci tiene a marcare la differenza tra chi è dotato di coscienza (l’uomo) e chi è orientato dal puro istinto (l’animale). Tanto per mettere sul piatto della bilancia un ulteriore elemento nell’apparente conflitto, più che altro dubbio esistenziale, fede versus ragione.
Di là dai quesiti filosofici che restituisce, Vita di Pi è comunque, prima di tutto, un grande spettacolo per gli occhi, un’avventura formativa dal retrogusto tipicamente fiabesco che allontana la pellicola del regista di Taiwan da opere come The tree of life, tanto per fare un esempio su un film recente che si interroga su fede e dintorni. Perché Ang Lee non è Terrence Malik, e nella fattispecie è un bene, perché qui non c’è alcun intellettualismo di sorta e perché sono del tutto assenti le pedanterie, i passaggi criptici e le lungaggini visivo-narrative di cui è colmo l’indecifrabile e sopravvalutato lungometraggio che ha vinto il 64°Festival di Cannes. Il 3D, come accennato, valorizza l’intero impianto della pellicola ed è al servizio di una visività molto sviluppata (splendide le sequenze acquatiche, e sorprendentemente verosimili gli animali, tutti realizzati con la computer grafica) cui Lee aveva dato prova in opere precedenti, quali ad esempio il cappa e spada La Tigre e il dragone. Quel che ne esce, a conti fatti, è un’opera estremamente godibile che non perde mai di pathos nemmeno nel descrivere l’adattamento al mare del ragazzo e della tigre, unici superstiti di un mondo fisico che è destinato a sconfinare oltre l’immenso oceano Pacifico che li circonda, per immaginare dimensioni oniriche e metafisiche che sono la misura esatta di una proiezione dell’anima-spirito, quando il corpo sembra cedere e il pensiero logico-razionale lascia il posto a un sentimento che la ragione, da sola, non è in grado di sostenere.
Federico Magi, dicembre 2012.
Edizione esaminata e brevi note
Regia: Ang Lee. Soggetto: tratto dal romanzo “Vita di Pi”, di Yann Martel. Sceneggiatura: David Magee. Direttore della fotografia: Claudio Miranda. Montaggio: Tim Squyres. Scenografia: David Gropman. Costumi: Arjun Bhasin. Interpreti principali: Suraj Sharma, Irrfan Khan, Tabu, Rafe Spall, Gérard Depardieu, Adil Hussain, Ayush Tandon, Gautam Belur, Ayan Khan, Mohd Abbas Khaleeli, Vibish Sivakumar, Andrea Di Stefano, Shravanthi Sainath, Elie Alouf. Musica originale: Mychael Danna. Produzione: Fox 2000 Pictures, Rhythm and Hues. Titolo originale: “Life of Pi”. Origine: USA, 2012. Durata: 127 minuti.
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